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lunedì 19 luglio 2010

FRANCESCO DE SANCTIS - Storia della Letteratura Italiana - Cap. dal I al VII


FRANCESCO DE SANCTIS

§>>>Storia della letteratura italiana<<<§

Capitoli: dal I al VII

I - I SICILIANI

Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena.

Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta un'epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al suo splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome.

Federico secondo, imperatore d'Alemagna e re di Sicilia, chiamato da Dante "cherico grande", cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel novelissimo signore, nella cui corte a Palermo venia "la gente che avea bontade, sonatori, trovatori e belli favellatori". E perciò i rimatori di quel tempo, ancorché parecchi sieno d'altra parte d'Italia, furono detti siciliani.

Che cosa è la cantilena di Ciullo?

È una tenzone, o dialogo tra Amante e Madonna, Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo concede, tema frequentissimo nelle canzoni popolari di tutt'i tempi e luoghi, e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il Frustino e la Crestaia.

Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre rimati, chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze, mescolata di voci siciliane, napolitane provenzali, francesi, latine. Diamo ad esempio due strofe:

AMANTE

Molte sono le femine

c'hanno dura la testa,

e l'uomo con parabole

le dimina e ammonesta:

tanto intorno percacciale

sinché l'ha in sua podesta.

Femina d'uomo non si può tenere.

Guàrdati, bella, pur di ripentere.

MADONNA

Che eo me ne pentesse?

Davanti foss'io auccisa,

ca nulla buona femina

per me fosse riprisa.

Er sera ci passasti

correnno alla distisa.

Acquistiti riposo, canzoneri:

le tue paraole a me non piaccion gueri.

La canzone è tirata giù tutta d'un fiato, piena di naturalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida, tutta cose, senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greggia, ineducata. E perciò il documento è più prezioso, perché se l'ingegno del poeta apparisce ne' concetti e ne' sentimenti e nell'andamento vivo e rapido del dialogo, la forma è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino di quel tempo.

E studiando in quella forma, è facile indurre che c'era allora già la nuova lingua, non ancora formata e fissata, ma tale che non solo si parlava, ma si scriveva; e c'era pure una scuola poetica col suo repertorio di frasi e di concetti, e con le sue forme tecniche e metriche già fissate.

Chi sa quanto tempo si richiede perché una lingua nuova acquisti una certa forma, che la renda atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace che la lingua di Ciullo, ancoraché in uno stato ancora di formazione, dovea già essere usata da parecchi secoli indietro.

E ci volle anche almeno un secolo, perché fosse possibile una scuola poetica, giunta allora all'ultimo grado della sua storia, quando i concetti, i sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono in tutti i medesimi.

Come e quando la lingua latina sia ita in decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi, come e quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine, quando e come siesi formato il nostro volgare, si può congetturare con più o meno di verisimiglianza, ma non si può affermare per la insufficienza de' documenti. Oltreché, non è questo il luogo di esaminare e chiarire quistioni filologiche di così alto interesse, materia non ancora esausta di sottili e appassionate discussioni.

Si possono affermare alcuni fatti.

La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta della nazione, parlata e scritta da' chierici, da' dottori, da' professori e da' discepoli. Ricordano Malespini dice che Federico secondo seppe "la lingua nostra latina e il nostro volgare".

Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare, parlato nell'uso comune della vita, si vede pure da' contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce latina trovi la voce in uso con un "vulgo dicitur", o "dicto."

Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino, come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto il "romano rustico". Nell'812 il concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in "lingua romana rustica". Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i galli e le altre romane province era così nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, "solo che l'oratore si fosse accostato alla guisa del volgo". Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al romano, e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare, anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali, vario ne' diversi dialetti, quanto alle sue parti accidentali, come desinenze, accenti, affissi, ecc. C'era dunque un tipo unico, presente in tutte le lingue neolatine, e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica, che ad alcun'altra.

Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese per le scuole, negli atti pubblici era usato un latino barbaro, molto simile alla lingua del volgo. Nell'uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte, ma era dappertutto, come il tipo unico a cui s'informavano i dialetti e che li certificava di una sola famiglia.

Questo tipo o carattere de' nostri dialetti appare e nella somiglianza de' vocaboli e delle forme grammaticali, e ne' mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal latino, era il "volgare". Così Malespini dicea: "la nostra lingua latina e il nostro volgare", cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo ne' suoi dialetti.

Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero rozzi e barbari, come le genti che li parlavano, altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli elementi locali e plebei, e prendere un colore e una fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante variazioni municipali, che non si era perduto mai, che era come criterio a distinguere fra loro i dialetti più o meno conformi a quello stampo, e che si diceva il "volgare", così prossimo al romano rustico.

Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini più educata e civile, metterla in comunicazione con la coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando in esse non quello che è locale, ma quello che è comune.

La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto, dall'altra, ad esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova vita, lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cercarono forme di dire più gentili, un linguaggio comune, dove appare ancora questo o quel dialetto, ma ci si sente già uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi più in uso fra la gente educata e che meglio la distinguano dalla plebe.

Questo linguaggio comune si forma più facilmente dove sia un gran centro di coltura, che avvicini le classi colte e sia come il convegno degli uomini più illustri. Questo fu a Palermo, nella corte di Federico secondo, dove convenivano siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli, o per dirla col Novellino, "dove la gente che avea bontade venìa a lui da tutte le parti".

Il dialetto siciliano era già sopra agli altri, come confessa Dante. E in Sicilia troviamo appunto un volgare cantato e scritto, che non è più dialetto siciliano e non è ancora lingua italiana, ma è già, malgrado gli elementi locali, un parlare comune a tutt'i rimatori italiani, e che tende più e più a scostarsi dal particolare del dialetto, e divenire il linguaggio delle persone civili.

La Sicilia avea avuto già due grandi epoche di coltura, l'araba e la normanna. Il mondo fantastico e voluttuoso orientale vi era penetrato con gli arabi, e il mondo cavalleresco germanico vi era penetrato co' normanni, che ebbero parte così splendida nelle Crociate. Ivi più che in altre parti d'Italia erano vive le impressioni, le rimembranze e i sentimenti di quella grande epoca da Goffredo a Saladino; i canti de' trovatori, le novelle orientali, la Tavola rotonda, un contatto immediato con popoli così diversi di vita e di coltura, avea colpito le immaginazioni e svegliata la vita intellettuale e morale. La Sicilia divenne il centro della coltura italiana. Fin dal 1166 nella corte del normanno Guglielmo II convenivano i trovatori italiani. Sotto Federico secondo l'Italia colta avea la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano "siciliani". Cronache, trattati scrivevano in un latino già meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico, fondo comune di tutt'i dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il "volgare", di tutt'i volgari moderni il più simile al latino.

La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il volgare, com'era usato in tutt'i trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia ancora greggia.

Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e grande ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per giungere fin qui è stato necessario un lungo periodo di elaborazione. Ciullo è l'eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che avea avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un'espressione ancor semplice e immediata, ma più nobile, più diretta e meno locale, è nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e nel Lamento dell'amante del crociato, di Rinaldo d'Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con semplicità e verità di stile, con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali, questo "sonetto", come lo chiama l'innamorata, dovea fare la più grande impressione. Comincia così:

Giammai non mi conforto

nè mi voglio allegrare.

Le navi sono al porto

e vogliono collare.

Vassene la più gente

in terre d'oltremare.

Ed io, oimè lassa dolente!

Come degg'io fare?

Vassene in altea contrata,

e nol mi manda a dire:

ed io rimango ingannata.

Tanti son li sospire

che mi fanno gran guerra

la notte con la dia;

nè in cielo nè in terra

non mi pare ch'io sia.

Il seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza di preghiere e di lamenti, ora raccomandando a Dio l'amato, ora dolendosi con la croce:

La croce mi fa dolente,

e non mi val Deo pregare.

Oimè, croce pellegrina,

perché m'hai così distrutta?

Oinzè lassa tapina!

ch'io ardo e incendo tutta.

Finisce così

Però ti prego, Dolcetto,

che sai la pena mia,

che me ne facci un sonetto

e mandilo in Soria:

ch'io non posso abentare

notte, nè dia:

in terra d'oltremare

ita è la vita mia.

La lezione è scorretta; pure, questa è già lingua italiana, e molto sviluppata ne' suoi elementi musicali e ne' suoi lineamenti essenziali.

L'amante che prega e chiede amore, l'innamorata che lamenta la lontananza dell'amato, o che teme di essere abbandonata, le punture e le gioie dell'amore, sono i temi semplici de' canti popolari, la prima effusione del cuore messo in agitazione dall'amore. E queste poesie, come le più semplici e spontanee, sono anche le più affettuose e le più sincere. Sono le prime impressioni, sentimenti giovani e nuovi, poetici per sè stessi, non ancora analizzati e raffinati.

Di tal natura è il Lamento dell'innamorato per la partenza in Storia della sua amata, di Ruggerone da Palermo, e il canto di Odo delle Colonne, da Messina, dove l'innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la sua gelosia. Eccone il principio:

Oi lassa innamorata,

contar vo' la mia vita,

e dire ogni fiata,

come l'amor m'invita,

ch'io son, senza peccata,

d 'assai pene guernita

per uno che amo e voglio,

e non aggio in mia baglia,

siccome avere io soglio;

però pato travaglia.

Ed or mi mena orgoglio,

lo cor mi fende e taglia.

Oi lassa tapinella,

come l'amor m'ha prisa!

Come lo cor m'infella

quello che m'ha conquisa!

La sua persona bella

tolto m'ha gioco e risa,

ed hammi messa in pene

ed in tormento forte:

mai non credo aver bene,

se non m'accorre morte,

e spero, là che vene,

traggami d'esta sorte.

Lassa che mi dicia,

quando m'avìa in celato:

- Di te, o vita mia,

mi tegno più pagato,

che s'io avessi in balìa

lo mondo a signorato.

Sono sentimenti elementari e irriflessi, che sbuccian fuori nella loro natia integrità senza immagini e senza concetti. Non ci è poeta di quel tempo, anche tra i meno naturali, dove non trovi qualche esempio di questa forma primitiva, elementare, a suon di natura, come dice un poeta popolare, e com'è una prima e subita impressione colta nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua esce così viva e propria e musicale che serba una immortale freschezza, e la diresti "pur mo' nata", e fa contrasto con altre parti ispide dello stesso canto. Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla, vi trova questa gemma:

Giorno non ho di posa,

come nel mare l'onda:

core, ché non ti smembri?

Esci di pene e dal corpo ti parte:

ch'assai val meglio un'ora

morir, che ognor penare.

Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta assai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una forma certo lontana da questa perfezione, pur semplice e sincera:

Perzò meglio varria

morir in tutto in tutto,

ch'usar la vita mia

in pena ed in corrutto,

come uomo languente.

Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda e stentata, è pure qua e colà una certa grazia nella nuda ingenuità di sentimenti che vengon fuori nella loro crudità elementare. Udite questi versi:

E par ch'eo viva in noia della gente:

ogni uono m' è selvaggio:

non paiono li fiori

per me, com' già soleano,

e gli augei per amori

dolci versi faceano — agli albori.

Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che lo empiono di maraviglia e lo commuovono e lo interessano, senza ch'ei senta bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra, non rappresenta, e non descrive. Non è ancora la storia, è la cronaca del suo cuore.

Però niente è in questi che per ingenuità e spontaneità di forma e di sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare.

Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Venuta dal di fuori, quella vita cavalleresca, mescolata di colori e rimembranze orientali, non avea riscontro nella vita nazionale. La gaia scienza, il codice d'amore, i romanzi della Tavola rotonda, i Reali di Francia, le novelle arabe, Tristano, Isotta, Carlomagno e Saladino, il soldano, tutto questo era penetrato in Italia, e se colpiva l'immaginazione, rimaneva estraneo all'anima e alla vita reale. Nelle corti ce ne fu l'imitazione. Avemmo anche noi i trovatori, i giullari e i novellatori. Vennero in voga traduzioni, imitazioni, contraffazioni di poemi, romanzi, rime cavalleresche. L'Intelligenzia, poema in nona rima ultimamente scoperto, è una imitazione di simil genere. L'amore divenne un'arte, col suo codice di leggi e costumi. Non ci fu più questa o quella donna, ma la donna con forme e lineamenti fissati, così come era concepita ne' libri di cavalleria. Tutte le donne sono simili. E così gli uomini: tutti sono il cavaliere con sentimenti fattizii e attinti da' libri. Ma il movimento si fermò negli strati superiori della società, e non penetrò molto addentro nel popolo, e non durò. Forse, se la Casa sveva avesse avuto il di sopra, questa vita cavalleresca e feudale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di Casa sveva e la vittoria de' comuni nell'Italia centrale fecero della cavalleria un mondo fantastico, simile a quel favoleggiare di Roma, di Fiesole e di Troia.

Essendo idee, sentimenti e immagini una merce bella e fatta, non trovate e non lavorate da noi, si trovano messe lì, come tolte di peso, con manifesto contrasto tra la forma ancor rozza e i concetti peregrini e raffinati. Sono concetti scompagnati dal sentimento che li produsse, e che non generano alcuna impressione. Quando vengono sotto la penna, il cervello e il cuore sono tranquilli. Il poeta dice che amore lo fa "trovare" lo rende un trovatore; ma è un amore come lo trova scritto nel codice e ne' testi, nè ti è dato sentire ne' suoi versi una tragedia sua, le sue agitazioni. Le reminiscenze, le idee in voga gli tengono luogo d'ispirazione. Sono migliaia di poesie, tutte di un contenuto e di un colore, così somiglianti che spesso sei impacciato a dire il tempo e l'autore del canto, ove ne' codici sia discordanza o silenzio: ciò che non di rado accade. La poesia non è una prepotente effusione dell'anima, ma una distrazione, un sollazzo, un diporto, una moda, una galanteria. È un passatempo, come erano le corti d'amore, è la gaia scienza un modo di passarsela allegramente, e acquistarsi facile riputazione di spirito e di coltura, facendo sfoggio della dottrina d'amore; e chi più mostrava saperne, era più ammirato. Invano cerchi ne' canti di Federico, di Enzo, di Manfredi, di Pier delle Vigne le preoccupazioni o le agitazioni della loro vita: vi trovi il solito codice d'amore, con le stesse generalità. L'arte diviene un mestiere, il poeta diviene un dilettante; tutto è convenzionale, concetti, frasi, forme, metri: un meccanismo che dovea destare grande ammirazione nel volgo, specialmente usato dalle donne; la Nina Siciliana e la Compiuta Donzella fiorentina dovettero parere un miracolo.

Quello che avvenne si può indovinare. Migliori poeti son quelli che scrivono senza guardare all'effetto e senza pretensione, a diletto e a sfogo, e come viene. Anche nelle poesie più rozze trovi bei movimenti di affetto e d'immaginazione, con una gentilezza e leggiadria di forma, che viene dal di dentro. Sono più vicini al sentimento popolare e alla natura. Ma quando vai su, quando ti accosti a quella poesia che Dante chiama aulica e cortigiana, ti trovi già lontano dal vero e dalla natura, ed hai tutt'i difetti di una scuola poetica, nata e formata fuori d'Italia, e già meccanizzata e raffinata. Hai tutt'i difetti della decadenza, un seicentismo che infetta l'arte ancora in culla. Ci è già un repertorio. Il poeta dotto non prende quei concetti, così crudi e nudi, come fanno i rozzi nella loro semplicità, ma per fare effetto li assottiglia e li esagera. Nei rozzi non ci è alcun lavoro: in questi un lavoro c'è, ma freddo e meccanico. Concetti, immagini, sentimenti, frasi, metri, rime, tutto è sforzato, tormentato, oltrepassato, sì che il lettore ammiri la dottrina, lo spirito e le difficoltà superate. Trovi insieme rozzezza e affettazione. La lingua ancor giovane non è raffinata, come il concetto, e scopre l'artificio di un lavoro, a cui rimane estranea. E fosse almeno originale questo lavoro, sì che rivelasse nei poeta una vera svegliatezza e attività dello spirito! Ma è un seicentismo venuto anch'esso dal di fuori. Eccone un esempio:

Umile sono ed orgoglioso,

prode e vile e coraggioso,

franco e sicuro e pauroso,

e sono folle e saggio.

Facciome prode e dannaggio,

e diraggio

- Vi' como

mal e bene aggio

più che null'omo. -

Così comincia una canzone Ruggieri Pugliese, tutta su questo andare, dove la rozzezza e la negligenza della forma esclude ogni serietà di lavoro: è una litania di antitesi racimolate qua e là e messe insieme a casaccio.

I poeti siciliani di questo genere più ammirati a quei tempi sono Guido delle Colonne e il notaio Iacopo da Lentino.

Guido, dottore o, come allora dicevasi, giudice, fu uomo dottissimo. Scrisse cronache e storie in latino, e voltò di greco in latino la Storia della caduta di Troia, di Darete, una versione che fu poi recata parecchie volte in volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune volgare, e tende ad alzarsi, ad accostarsi alla maestà e gravità del latino: sì che meritò che Dante le sue canzoni chiamasse tragiche, cioè del genere nobile e illustre. Ma la natura non lo avea fatto poeta, e la sua dottrina e il lungo uso di scrivere non valse che a fargli conseguire una perfezione tecnica, della quale non era esempio avanti. Hai un periodo ben formato, molta arte di nessi e di passaggi, uno studio di armonia e di gravità: artificio puramente letterario e a freddo. Manca il sentimento; supplisce l'acutezza e la dottrina, studiandosi di fare effetto con la peregrinità d'immagini e concetti esagerati e raffinati, che parrebbero ridicoli, se non fossero incastonati in una forma di grave e artificiosa apparenza. Ecco un esempio:

Ancor che l'aigua per lo foco lasse

la sua grande freddura,

non cangerea natura,

se alcun vasello in mezzo non vi stasse:

anzi avverrea senza alcuna dimura

che lo foco stutasse,

o che l'aigua seccasse;

ma per lo mezzo l'uno e l'alto dura.

Così, gentil criatura,

in me ha mostrato amore

l'ardente suo valore,

che senz'amore - era aigua fredda e ghiaccia.

Ma el m'ha sì allumato

di foco, che m'abbraccia,

ch'eo fòra consumato,

se voi, donna sovrana,

non foste voi mezzana

infra l'amore e meve,

che fa lo foco nascere di neve.

E non si ferma qui, e continua con l'acqua e il foco e la neve, e poi dice che il suo spirito è ito via, e lo "spirito ch'io aggio, credo lo vostro sia che nel mio petto stia", e conchiude ch'ella lo tira a sè, ed ella sola può, come di tutte le pietre la sola calamita ha balìa di trarre: paragone in cui spende tutta la strofa, spiegando come la calamita abbia questa virtù. Questi son concetti e freddure dissimulate nell'artificio della forma; perché se guardi alla condotta del periodo, all'arte de' passaggi, alla stretta concatenazione delle idee, alla felicità dell'espressione in dir cose così sottili e difficili, hai poco a desiderare.

In Iacopo da Lentino questa maniera è condotta sino alla stravaganza, massime ne' sonetti. Non mancano movimenti d'immaginazione ed una certa energia d'espressione, come:

Ben vorria che avvenisse

che lo meo core uscisse

come incarnato tutto,

e non dicesse mutto - a voi sdegnosa:

ch'Amore a tal n 'addusse,

che se vipera fusse,

naturia perderea:

ella mi vederea: - fòra pietosa.

Ma sono affogati fra paragoni, sottigliezze e freddure, che nella rozza trascurata forma spiccano più, e sono reminiscenze, sfoggio di sapere. Non sente amore, ma sottilizza d'amore, come:

Fino amor di fin cor vien di valenza,

e scende in alto core somigliante,

e fa di due voleri una voglienza,

la qual è forte più che lo diamante,

legandoli con amorosa lenza,

che non si rompe, nè scioglie l'amante.

Su questa via giunge sino alla più goffa espressione di una maniera falsa e affettata, come è un sonetto, che comincia:

Lo viso, e son diviso dallo viso,

e per avviso credo ben visare,

però diviso viso dallo viso,

ch'altro è lo viso che lo divisare, ecc.

Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero estranei alla serietà e intimità della vita, ebbero non piccola influenza nella formazione del volgare, sviluppando le forme grammaticali e la sintassi e il periodo e gli elementi musicali: come si vede principalmente in Guido delle Colonne. Ne' più rozzi trovi de' brani di un colore e di una melodia che ti fa presentire il Petrarca. Valgano a prova alcuni versi nella canzone attribuita a re Manfredi:

E vero certamente credo dire,

che fra le donne voi siete sovrana,

e d'ogni grazia e di virtù compita,

per cui morir d'amor mi saria vita.

L'Intelligenzia, poema allegorico, pieno d'imitazioni e di contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che mostra nell'ignoto autore un'anima delicata, innamorata, aperta alle bellezze della natura, e fa presumere a quale eccellenza di forma era giunto il volgare. C'è una descrizione della primavera, non nuova di concetti, ma piena di espressione e di soavità, come di chi ne ha il sentimento. E continua così:

Ed io stando presso a una fiumana

in un verziere all'ombra di un bel pino,

d'acqua viva aveavi una fontana

intorneata di fior gelsomino.

Sentìa l'àire soave a tramontana:

udìa cantar gli augei in lor latino;

allor sentìo venir dal fino amore

un raggio che passò dentro dal core,

come la luce che appare al mattino.

E descrive così la sua donna:

Guardai le sue fattezze dilicate,

che nella fronte par la stella Diana,

tant' è d'oltremirabile biltate,

e nell'aspetto sì dolce ed umana!

Bianca e vermiglia di maggior clartate

che color di cristallo o fior di grana:

la bocca picciolella ed aulorosa,

la gola fresca e bianca più che rosa,

la parlatura sua soave e piana.

Le bionde trecce e i begli occhi amorosi,

che stanno in sì salutevole loco,

quando li volge, son sì dilettosi,

che il cor mi strugge come cera foco.

Quando spande li sguardi gaudiosi

par che 'l mondo si allegri e faccia gioco.

Qui ci è un vero entusiasmo lirico, il sentimento della natura e della bellezza: ond'è nata una mollezza e dolcezza di forma, che con poche correzioni potresti dir di oggi; così è giovine e fresca.

E se il sonetto dello "sparviere" è della Nina, se è lavoro di quel tempo, come non pare inverisimile, è un altro esempio della eccellenza a cui era venuto il volgare, maneggiato da un'anima piena di tenerezza e d'immaginazione:

Tapina me che amava uno sparviero,

amaval tanto ch'io me ne moria;

a lo richiamo ben m'era maniero,

ed unque troppo pascer nol dovia.

Or è montato e salito sì altero,

assai più altero che far non solia;

ed è assiso dentro a un verziero,

e un'altra donna l'averà in balìa.

Isparvier mio, ch'io t'avea nodrito;

sonaglio d'oro ti facea portare,

perché nell'uccellar fossi più ardito.

Or sei salito siccome lo mare,

ed hai rotto li geti e sei fuggito,

quando eri fermo nel tuo uccellare.

Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza più chiara di sè e venisse a maturità. La rovina fu tale, che quasi ogni memoria se ne spense, ed anche oggi, dopo tante ricerche, non hai che congetture, oscurate da grandi lacune.

Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi già nelle classi inferiori, ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la forza, nè l'elevatezza, ma una tenerezza raddolcita dall'immaginazione e non so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche nella lingua penetra questa mollezza, e le dà una fisonomia abbandonata e musicale, come d'uomo che canti e non parli, in uno stato di dolce riposo: qualità spiccata de' dialetti meridionali.

La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si rilevò più. Lo nobile signore Federico e il bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli Angioini, loro fidi. La parte popolana ebbe il disopra in Toscana, e la libertà de' comuni fu assicurata. La vita italiana, mancata nell'Italia meridionale in quella sua forma cavalleresca e feudale, si concentrò in Toscana. E la lingua fu detta toscana, e toscani furon detti i poeti italiani. De' siciliani non rimase che questa epigrafe:

Che fur già primi: e quivi eran da sezzo.









II - I TOSCANI

Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splendore e lusso d'immaginazione, e attirava a sè i più chiari ingegni d'Italia, ne' comuni dell'Italia centrale oscuramente, ma con assiduo lavoro, si formava e puliva il volgare. Centri principali erano Bologna e Firenze, intorno a' quali trovi Lucca, Pistoia, Pisa, Arezzo, Siena, Faenza, Ravenna, Todi, Sarzana, Pavia, Reggio.

Gittando uno sguardo su quelle antichissime rime, non vi trovi la vivacità e la tenerezza meridionale; ma uno stile sano e semplice, lontano da ogni gonfiezza e pretensione, e un volgare già assai più fino, per la proprietà de' vocaboli ed una grazia non scevra di eleganza.

Trovo una tenzone di Ciacco dall'Anguillara, fiorentino, sullo stesso tema trattato da Ciullo. Nella cantilena di costui hai più varietà e più impeto, e concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di Ciacco tutto è su uno stampo, in andamento piano, uguale e tranquillo, e in una lingua così propria e sicura, che non ne hai esempio ne' più tersi e puliti siciliani. Comincia così:

AMANTE

O gemma leziosa,

adorna villanella,

che sei più virtudiosa

che non se ne favella;

per la virtude ch'hai,

per grazia del Signore,

aiutami, ché sai,

ch'io son tuo servo, Amore.

DONNA

Assai son gemme in terra

ed in fiume ed in mare,

ch'anno virtude in guerra,

e fanno altrui allegrare:

amico, io non son dessa

di quelle tre nessuna:

altrove va per essa,

e cerca altra persona.

Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase, che ti annunzia un volgare già formato e parlato, si accompagna una misura e una grazia ignota alla nudità molle e voluttuosa della vita meridionale. E vaglia per prova la fine di questa tenzone, di una decenza amabile, così lontana dal plebeo "allo letto ne gimo" di Ciullo:

DONNA

Tanto m'hai predicata,

e sì saputo dire,

ch'io mi sono accordata:

dimmi: che t' è in piacere?

AMANTE

Madonna, a me non piace

castella, nè monete:

fatemi far la pace

con l'amor che sapete.

Questo addimando a vui,

e facciovi finita.

Donna, siete di lui,

ed egli è la mia vita.

Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua parlata, e sono i più acconci a mostrare a qual grado di finezza e di grazia era giunto il volgare in Toscana, massime in Firenze. Ecco alcuni brani di un altro dialogo di Ciacco:

Mentr'io mi cavalcava,

audivi una donzella;

forte si lamentava,

e diceva: - Oi madre bella,

lungo tempo è passato

che deggio aver marito,

e tu non lo m'hai dato.

La vita d'esto mondo nulla cosa mi pare...

- Figlia mia benedetta,

se l'amor ti confonde

de la dolce saetta,

ben te ne puoi sofferere...

- Per parole mi teni,

tuttor così dicendo;

questo patto non fina,

ed io tutta ardo e incendo;.

La voglia mi domanda

cosa che non suole,

una luce più chiara che il sole;

per ella vo languendo.

In queste rappresentazioni schiette dell'animo, e non astratte e pensate, ma in casi ben determinati e circoscritti il poeta è sincero, vede con chiarezza istintiva quello s'ha a fare e dire, come fa il popolo, e non esprime i suoi sentimenti, perché non ne ha coscienza, tutto dietro alle cose che gli si presentano, dette però in modo che ti suscitano anche le impressioni provate dal poeta. A lui basta dire il fatto e la sua immediata impressione, senza dimorarvi sopra, parendogli che la cosa in se stessa dica tutto: semplicità rara ne' meridionali, dov'è maggiore espansione, ma che è qualità principale del parlare fiorentino. Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto della Compiuta Donzella fiorentina, la divina Sibilla, come la chiama maestro Torrigiano:

Alla stagion che il mondo foglia e fiora,

accresce gioia a tutt'i fini amanti:

vanno insieme alli giardini allora

che gli augelletti fanno nuovi canti.

La franca gente tutta s'innamora

ed in servir ciascun traggesi innanti,

ed ogni damigella in gioi' dimora,

e a me ne abbondan smarrimenti e pianti.

Chè lo mio padre m'ha messa in errore,

e tienemi sovente in forte doglia:

donar mi vuole a mia forza signore.

Ed io di ciò non ho disio, nè voglia,

e in gran tormento vivo a tutte l'ore:

però non mi rallegra fior, nè foglia.

Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questo di concetto e di condotta, con minor movimento e grazia e freschezza, ma superiore d'assai per arte e perfezione di forma:

Quando l'aria rischiara e rinserena,

il mondo torna in grande dilettanza,

e l'acqua surge chiara dalla vena,

e l'erba vien fiorita per sembianza,

e gli augelletti riprendon lor lena,

e fanno dolci versi in loro usanza,

ciascun amante gran gioi' ne mena

per lo soave tempo che s'avanza.

Ed io languisco ed ho vita dogliosa:

come altro amante non posso gioire,

ché la mia donna m' è tanto orgogliosa.

E non mi vale amar, nè ben servire:

però l'altrui allegrezza m'è noiosa,

e dogliomi ch'io veggio rinverdire.

In questi due sonetti è grande semplicità di pensiero e di andamento, e una perfetta misura. Si ha aria di narrare quello si vede o si sente, senza riflessioni ed emozioni, ma con una vivacità ed un colorito, che suscita le più vive impressioni. Il secondo sonetto è cosa perfetta, se guardi alla parte tecnica, ed accenna a maggior coltura; non solo la nuova lingua è pienamente formata, ma è già elegante, già la frase surroga i vocaboli propri: a me piace più la perfetta semplicità del sonetto femminile, con movenza più vivace, più immediata e più naturale.

La proprietà, la grazia e la semplicità sono le tre veneri che si mostrano nel volgare, come si era ito formando in Toscana; qualità che trovi ancora dove è più difficile a serbarle, quando per una impazienza interna si rompe il freno e si dicono i secreti più delicati dell'animo, con tanta più audacia, quanto maggiore è stata la compressione, e con la sicurezza di chi sente che non ha torto, ma ragione: è una violenza raddolcita da una grazia ineffabile, e che per una naturale misura rimane ipotetica nel seguente madrigale di Alesso di Guido Donati:

In pena vivo qui sola soletta

giovin rinchiusa dalla madre mia,

la qual mi guarda con gran gelosia.

Ma io le giuro, alla croce di Dio,

s'ella mi terrà più sola serrata,

ch'i' dirò: - Fa' con Dio, vecchia arrabbiata. -

E gitterò la rocca, il fuso e l'ago,

amor, fuggendo a te, di cui m'appago.

Questa bella forma, in tanto spirito e vivacità così castigata, propria e semplice e piena di grazia, si andò sviluppando non perché il suo contenuto voleva così, ma in opposizione ad esso contenuto, vuoto ed astratto. Anzi che qualità del contenuto, o di questo e quel poeta, sembra il progresso naturale dello spirito toscano, dotato di un certo senso artistico, che lo tirava alla forma, nella piena indifferenza del contenuto. Perciò queste qualità spiccano più, dove il poeta non è impedito da un contenuto convenzionale, ma si abbandona a rappresentare i fatti e i moti dell'animo, come gli si affacciano in situazioni ben determinate, e come sono nella realtà della vita. Allora contenuto e forma sono una cosa stessa, ed hai ciò che di più perfetto ha prodotto a quel tempo lo spirito toscano: come è in parecchie poesie già citate. Potremmo desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita formando per un movimento ingenito, naturale e popolare, com'è stato presso altri popoli. Ma sono desidèri sterili. Il fatto è che mentre la lingua si formava, il contenuto era già formato e meccanizzato e convenzionale: la lingua si moveva, il contenuto rimaneva stazionario, lo stesso ne' più puliti scrittori, tutti del pari dimenticati, perché quello solo sopravvive, che ha una forma prodotta da un contenuto attivo e reale, vivente della vita comune.

Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rimatori a quei tempi. In Toscana, come in Sicilia, ci era già tutto un mondo poetico, non formato a poco a poco insieme col volgare, ma già fissato con lineamenti precisi e costanti. C'era già una poetica, e c'era anche un vocabolario comune. Concetti e parole sono in tutt'i trovatori gli stessi. Come più tardi avemmo le maschere, cioè caratteri comici con lineamenti tradizionali, che nessuno si attentava di alterare, così ci era allora Madonna e Messere.

Madonna, l'"amanza" o la cosa amata, era un ideale di tutta perfezione, non la tale e tale donna, ma la donna in genere, amata con un sentimento che teneva di adorazione e di culto. Messere era l'amante, il "meo sere", che avea qualche valore solo amando. Uomo senz'amore è uomo senza valore. Amare è indizio di cor gentile. Chi ama è cavaliere, ubbidiente alle leggi dell'onore, difensore della giustizia, protettore de' deboli, umile servo o servente d'amore, e soffre volentieri ove a sua Madonna piaccia, e amato sta allegro, ma "senza vanitate", senza menar vanto, e spregia le ricchezze, perché chi è amato è ricco. Amore è "di due voleri una voglienza", ed è senza "fallimento" o "villania", senza peccato, e sta contento al solo sguardo; nello stesso paradiso la gioia dell'amante è contemplare Madonna, e senza Madonna "non vi vorria gire". Il codice d'amore descrive i concetti e i sentimenti degli amanti "fini" e "cortesi". Il codice della cavalleria descrive le leggi dell'onore, i doveri di cavaliere "leale" e "franco". Come si vede, amore era tutta la vita ne' suoi vari aspetti, era Dio, patria e legge; la donna era la divinità di quei rozzi petti. Chi cerca nelle memorie della prima età, troverà questo ideale della donna nella sua purezza e nella sua onnipotenza: l'universo è la Donna. E tale fu negl'inizi della società moderna in Germania, in Francia, in Provenza, in Spagna, in Italia. La storia fu fatta a quella immagine. Troiani e romani erano concepiti come cavalieri erranti, e così arabi, saraceni, turchi, lo soldano e Saladino. Paris e Elena, Piramo e Tisbe sono eroi da romanzo, come Lancillotto e Ginevra, Tristano e Isaotta la bionda. In questa fraternità universale si trovano gli angioli, i santi, i miracoli, il paradiso in istrana mescolanza col fantastico e il voluttuoso del mondo orientale, tutto battezzato sotto nome di cavalleria. Le idee generali non sono ancora potenti di uscire nella loro forma, e sono ancora allegorie. Le idee morali sono motti e proverbi. La letteratura di questa età infantile sono romanzi e novelle e favole e motti, poemi allegorici e sonetti nel loro primo significato, cioè rime con suoni, canti e balli, onde la canzone e la ballata.

La cavalleria poco attecchì in Italia. Castella e castellane col loro corteggio di giullari, trovatori, novellatori e bei favellatori doveano aver poco prestigio presso un popolo che avea disfatte le castella, e s'era ordinato a comune. Vinto Federico Barbarossa, e abbattuta poi Casa sveva, quella vita di popolo fu assicurata, e le tradizioni feudali e monarchiche perdettero ogni efficacia nella realtà. Rimasero nella memoria, non come regola della vita, ma come un puro gioco d'immaginazione. Nessuno credeva a quel mondo cavalleresco, nessuno gli dava serietà e valore pratico: era un passatempo dello spirito, non tutta la vita, ma un incidente, una distrazione. Ora quando un contenuto non penetra nelle intime latebre della società e rimane nel campo dell'immaginazione, diviene subito frivolo e convenzionale, come la moda, e perde ogni sincerità e ogni serietà. Ma la stessa immaginazione era inaridita innanzi a un contenuto dato e fissato, come si trovava in una letteratura non nata e formata con la vita nazionale, ma venuta dal di fuori per via di traduzioni. Perciò niente di nazionale e di originale, nessun moto di fantasia o di sentimento; nessuna varietà di contenuto; una così noiosa uniformità, che mal sai distinguere un poeta dall'altro.

Questo contenuto non può aver vita, se non si move, trasformato e lavorato dal genio nazionale. Quello stesso senso artistico, che avea condotta già a tanta perfezione la lingua, dovea altresì risuscitare quel contenuto e dargli moto e spirito.

L'Italia avea già una coltura propria e nazionale molto progredita: l'Europa andava già ad imparare nella dotta Bologna. Teologia, filosofia, giurisprudenza, scienze naturali, studi classici aveano già con vario indirizzo dato un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel contenuto cavalleresco dovea parer frivolo e superficiale ad uomini educati con Virgilio ed Ovidio, che leggevan san Tommaso e Aristotile, nutriti di Pandette e di dritto canonico, ed aperti a tutte le maraviglie dell'astronomia e delle scienze naturali. Le tenzoni d'amore doveano parer cosa puerile a quegli atleti delle scuole, così pronti e così sottili nelle lotte universitarie. Quella forma di poetare dovea parer troppo rozza e povera a gente già iniziata in tutti gli artifici della rettorica. Nacque l'entusiasmo della scienza, una specie di nuova cavalleria che detronizzava l'antica. Lo stesso impeto che portava l'Europa a Gerusalemme, la portava ora a Bologna. Gli storici descrivono co' più vivi colori questo grande movimento di curiosità scientifica, il cui principal centro era in Italia.

E la scienza fu madre della poesia italiana, e la prima ispirazione venne dalla scuola. Il primo poeta è chiamato il Saggio, e fu il padre della nostra letteratura, fu il bolognese Guido Guinicelli, il nobile, il massimo, dice Dante, il padre

mio e degli altri miei miglior, che mai

rime d'amor usàr dolci e leggiadre.

Guido nel 1270 insegnava lettere nell'università di Bologna. Il volgare era già formato, e si chiamava "lingua materna": l'uso moderno, in opposizione al latino. Egli vi gittò dentro tutto l'entusiasmo di una mente educata dalla filosofia alle più alte speculazioni, e commossa da' miracoli dell'astronomia e dalle scienze naturali. È il mondo nuovo della scienza, che si rivela con le sue fresche impressioni nella sua canzone sulla natura dell'amore. In generale, le poesie de' trovatori sono una filza di concetti addossati gli uni agli altri, senza sviluppo. Qui non ci è che un solo concetto, ed è il luogo comune de' trovatori, espresso nel celebre verso:

Amore e cor gentil sono una cosa.

Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a Guido, e si mostra ne' più nuovi aspetti. Risorge l'immaginazione, e attinge le sue immagini non da' romanzi di cavalleria, ma dalla fisica, dall'astronomia, da' più bei fenomeni della natura, con la compiacenza, con la voluttà e l'abbondanza di chi addita e spiega le sue scoperte. I paragoni si accavallano, s'incalzano, ti par di essere in un mondo incantato, e passi di maraviglia in maraviglia. Citerò alcuni brani:

Al cor gentil ripara sempre amore,

siccome augello in selva alla verdura;

nè fe, amore anti che gentil core

nè gentil core anti che amor, Natura.

Che adesso com' fu il Sole

sì tosto fue lo splendor lucente

nè fu davanti al Sole.

E prende Amore in gentilezza loco

così propiamente,

come il calore in chiarità di foco.

Foco d'Amore in gentil cor s'apprende

come virtute in pietra preziosa;

ché dalla stella valor non discende,

anzi che il Sol la faccia gentil cosa...

Amor per tal ragion sta in cor gentile,

per qual lo foco in cima del doppiero...

Amore in gentil cor prende rivera

com' diamante dal ferro in la miniera.

èere lo Sol lo fango tutto il giorno:

vile riman: nè il Sol perde calore.

Dice uom altier: - Gentil per schiatta torno: -

lui sembra il fango; e il Sol gentil valore.

Chè non dee dare uom fè

che gentilezza sia fuor di coraggio

in dignità di re,

se da virtute non ha gentil core:

com'acqua ei porta raggio

e il ciel ritien la stella e lo splendore.

C'è qui una certa oscurità alcuna volta e un certo stento, come di un pensiero in travaglio, e n'escono vivi guizzi di luce che rivelano le profondità di una mente sdegnosa di luoghi comuni e per lungo uso speculatrice. Il contenuto non è ancora trasformato internamente, non è ancora poesia, cioè vita e realtà; ma è già un fatto scientifico, scrutato, analizzato da una mente avida di sapere, con la serietà e la profondità di chi si addentra ne' problemi della scienza, e illuminato da una immaginazione, eccitata non dall'ardore del sentimento, ma dalla stessa profondità del pensiero. Guido non sente amore, non riceve e non esprime impressioni amorose, ma contempla l'amore e la bellezza con uno sguardo filosofico; quello che gli si affaccia non è persona idealizzata, ma è pura idea, della quale è innamorato con quello stesso amore che il filosofo porta alla verità intuita e contemplata dalla sua mente, quasi fosse persona viva. Così Platone amava le sue idee; l'amore platonico non era altro che amore d'intuizione e di contemplazione, una specie di parentela tra il contemplante e il contemplato: io ti contemplo e ti fo mia. Guido ama la creatura della sua meditazione, e l'amore gli move l'immaginazione e gli fa trovare i più ricchi colori, sì ch'ella par fuori pomposamente abbigliata. L'artista è un filosofo, non è ancora un poeta. A quel contenuto cavalleresco, frivolo e convenzionale, così fecondo presso i popoli dove nacque, così sterile presso noi dove fu importato, succede Platone, la contemplazione filosofica. Non ci è ancora il poeta, ma ci è l'artista. Il pensiero si move, l'immaginazione lavora. La scienza genera l'arte.

La coltura cavalleresca, se giovò a formare il volgare, impedì la libertà e spontaneità del sentimento popolare, e creò un mondo artificiale e superficiale, fuori della vita, che rese insipidi gl'inizi della nostra letteratura, così interessanti presso altri popoli. Quel contenuto stazionario comincia a moversi presso Guido, di un moto impresso non da sentimento di amore, ma da contemplazione scientifica dell'amore e della bellezza, che se non riscalda il core, sveglia l'immaginazione. Questo dunque si ricordi bene, che la nostra letteratura fu prima inaridita nel suo germe da un mondo poetico cavalleresco, non potuto penetrare nella vita nazionale, e rimaso frivolo e insignificante; e fu poi sviata dalla scienza, che l'allontanò sempre più dalla freschezza e ingenuità del sentimento popolare, e creò una nuova poetica, che non fu senza grande influenza sul suo avvenire. L'arte italiana nasceva non in mezzo al popolo, ma nelle scuole, fra san Tommaso e Aristotele, tra san Bonaventura e Platone.

La poesia di Guido ha il difetto della sua qualità: la profondità diviene sottigliezza, e l'immaginazione diviene rettorica, quando vuole esprimere sentimenti che non prova. Vuol esprimere il suo stato quando fu colpito dal dardo di amore, e dice che quel dardo

per gli occhi passa, come fa lo trono,

che fèr per la finestra della torre

e ciò che dentro trova, spezza e fende.

Rimagno come statua d'ottono,

ove spirto, nè vita non ricorre,

se non che la figura d 'uomo rende.

Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Iacopo da Lentino. Ci si vede l'uomo d'ingegno e la mente che pensa. Ma non è linguaggio d'innamorato questo sottilizzare e fantasticare sul suo amore e sul suo stato.

Immensa fu l'impressione che produsse questa poesia di Guido se vogliamo giudicarla da quella che n'ebbe Dante, che lo imitò tante volte, che lo chiamò padre suo, che la magnifica terza strofa scelse a materia della sua canzone sulla nobiltà, che ebbe la stessa scuola poetica, che nota la celebrità a cui venne l'uno e l'altro Guido e aggiunge:

e forse è nato

chi l'uno e l'altro caccerà di nido.

Guido oscurò tutt'i trovatori e salì a gran fama presso un pubblico avido di scienza e pieno d'immaginazione, di cui Guido era il ritratto; un pubblico uscito dalle scuole, per il quale poesia era sapienza e filosofia, verità adorna, e che non pregiava i versi, se non come velame della dottrina:

Mirate la dottrina che s'asconde

sotto il velame de li versi strani.

Tal poeta, tal pubblico. E si andò così formando una scuola poetica, il cui codice è il Convito di Dante.

Se Bologna si gloriava del suo Guido, Arezzo avea il suo Guittone, Todi il suo Iacopone e Firenze il suo Brunetto Latini.

Dante mette Guittone tra quelli che "sogliono sempre ne' vocaboli e nelle locuzioni somigliare la plebe". Alla qual sentenza contraddicono alcuni sonetti attribuiti a lui, e che per l'andamento e la maniera sembrano di fattura molto posteriore. Se guardiamo alle sue canzoni e alle sue prose, non sarà alcuno che non stimerà giusta la sentenza di Dante. In Guittone è notabile questo, che nel poeta senti l'uomo: quella forma aspra e rozza ha pure una fisonomia originale e caratteristica, una elevatezza morale, una certa energia d'espressione. L'uomo ci è, non l'innamorato, ma l'uomo morale e credente, e dalla sincerità della coscienza gli viene quella forza. E c'è anche l'uomo colto, una mente esercitata alla meditazione e al ragionamento. I suoi versi sono non rappresentazione immediata della vita, ma sottili e ingegnosi discorsi, che doveano parer maraviglia a quel pubblico scolastico. Venne perciò a tale celebrità che fu tenuto per qualche tempo il primo de' poeti; ma nella sua vecchia età si vide oscurato da' nuovi astri, onde dice il Petrarca:

Guitton d'Arezzo,

che di non esser primo par ch'ira aggia.

Nondimeno gli rimasero ammiratori e seguaci, con grande ira di Dante, che esclama: "Cessino i seguaci dell'ignoranza, che estollono Guittone d'Arezzo".

Guittone non è poeta, ma un sottile ragionatore in versi, senza quelle grazie e leggiadrie che con sì ricca vena d'immaginazione ornano i ragionamenti di Guinicelli. Non è poeta, e non è neppure artista: gli manca quella interna misura e melodia, che condusse poeti inferiori a lui di coltura e d'ingegno a polire il volgare. È privo di gusto e di grazia.

Degne di maggiore attenzione sono le poesie di Iacopone, come quelle che segnano un nuovo indirizzo nella nostra letteratura. Sono le poesie di un santo, animato dal divino amore. Non sa di provenzali, o di trovatori, o di codici d'amore: questo mondo gli è ignoto. E non cura arte, e non cerca pregio di lingua e di stile, anzi affetta parlare di plebe con quello stesso piacere con che i santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole, dare sfogo ad un'anima traboccante di affetto, esaltata dal sentimento religioso. Ignora anche teologia e filosofia, e non ha niente di scolastico. Si capisce che un poeta così fuori di moda dovea in breve esser dimenticato dal colto pubblico, sì che le sue poesie ci furono conservate come un libro di divozione, anzi che come lavoro letterario. E nondimeno c'è in Iacopone una vena di schietta e popolare e spontanea ispirazione, che non trovi ne' poeti colti finora discorsi. Se i mille trovatori italiani avessero sentito amore con la caldezza e l'efficacia, che desta tanto incendio nell'anima religiosa di Iacopone, avremmo avuta una poesia meno dotta e meno artistica, ma più popolare e sincera.

Iacopone riflette la vita italiana sotto uno de' suoi aspetti con assai più di sincerità e di verità che non trovi in nessun trovatore. È il sentimento religioso nella sua prima e natia espressione, come si rivela nelle classi inculte, senza nube di teologia e di scolasticismo, e portato sino al misticismo ed all'estasi. In comunione di spirito con Dio, la Vergine, i santi e gli angeli, parla loro con tutta dimestichezza, e li dipinge con perfetta libertà d'immaginazione, co' particolari più pietosi e più affettuosi che sa trovare una fantasia commossa dall'amore. Maria è soprattutto il suo idolo, e le parla con la familiarità e l'insistenza di chi è sicuro della sua fede e sa di amarla:

Di', Maria dolce, con quanto disio

miravi 'l tuo figliuol Cristo mio Dio.

Quando tu il partoristi senza pena,

la prima cosa, credo, che facesti,

sì l'adorasti, o di grazia piena,

poi sopra il fien nel presepio il ponesti;

con pochi e pover' panni l'involgesti,

maravigliando e godendo, cred'io.

O quanto gaudio avevi e quanto bene,

quando tu lo tenevi fra le braccia!

Dillo, Maria, ché forse si conviene

che un poco per pietà mi satisfaccia.

Baciavi tu allora nella faccia,

se ben credo, e dicevi: - O figliuol mio! -

Quando "figliuol", quando "padre" e "signore",

quando "Dio", e quando "Gesù" lo chiamavi;

o quanto dolce amor sentivi al core,

quando in grembo il tenevi ed allattavi!

Quanti dolci atti e d'amore soavi

vedevi, essendo col tuo figliuol pio!

Quando un poco talora il dì dormiva,

e tu destar volendo il paradiso,

pian piano andavi che non ti sentiva,

e la tua bocca ponevi al suo viso,

e poi dicevi con materno riso:

- Non dormir più che ti sarebbe rio. -

Sotto l'impressione del sentimento religioso Iacopone indovina tutte le gioie e le dolcezze dell'amor materno. Iacopone non concepisce il divino nella sua purezza, come un teologo o un filosofo, ma vestito di tutte le apparenze e gli affetti umani. Questa è una scena di famiglia, colta dal vero, con una franchezza di colorito e con una grazia di movenze, tutta intuitiva. Preghiere, sdegni, follie d'amore, fantasie, estasi, visioni, tutto trovi in Iacopone al naturale e come gli viene di dentro; ciò che ci è più semplice e commovente, e ciò che ci è più strano e volgare. La forma è il sentimento esso medesimo; ed ora è soave, efficace, quasi elegante, ora stravagante e plebea. Ha una facilità che gli nuoce, ed un impeto di espressione che non dà luogo alla lima. Ma ne' suoi impeti gli escono forme di dire così fresche e felici, che non disdegnarono d'imitarle Dante e il Tasso. Nè è meno terribile che soave; e vagliano a prova alcuni tratti:

Andiam tutti a vedere

Iesù quando dormia.

La terra, l'aria e il cielo

fiorir, rider facia:

tanta dolcezza e grazia

dalla sua faccia uscia.

La faccia di Gesù bambino, il Natale, la Vergine, il volo dell'anima al paradiso, gli angioli sono visioni piene di grazia e di efficacia. Nascendo Gesù:

le gerarchie superne

eran dal ciel discese:

lucean come lucerne

d'ardente foco accese

le loro ale distese.

Gesù ha un corteggio di donne, che gli danzano intorno, Verginità, Umiltà, Carità, Speranza, Povertà, Astinenza: è qualche cosa di simile alle tre sorelle di Dante nella sua celebre canzone. Ecco in che modo Iacopone descrive l'Umiltà:

E questa era gioconda

onesta e mansueta,

e con la treccia bionda

e a cantar la più lieta;

d'ogni virtù repleta,

a me il capo chinava:

tanto m'assecurava

ch'io presi a favellare.

Quella stessa immaginazione, che dipinge con tanta grazia, rappresenta con evidenza terribile i terrori dell'anima peccatrice nel giudizio universale:

Chi è questo gran Sire,

rege di grande altura?

Sotterra i' vorrei gire,

tal mi mette paura.

Ove potria fuggire

dalla sua faccia dura?

Terra, fa' copritura,

ch'io nol veggia adirato.

... ... ... .

Non trovo loco dove mi nasconda,

monte, nè piano, nè grotta o foresta:

ché la veduta di Dio mi circonda,

e in ogni loco paura mi desta...

Tutti li monti saranno abbassati,

e l'aire stretto e i venti conturbati,

e il mare muggirà da tutt'i lati.

Con l'acque lor stara fermi adunati

i fiumi ad aspettare.

Allor udrai dal ciel tromba sonare,

e tutti i morti vedrai suscitare,

avanti al tribunal di Cristo andare,

e il foco ardente per l'aria volare

con gran velocitate.

Iacopone non è un'apparizione isolata; ma si collega a tutta una letteratura latina popolare, animata dal sentimento religioso. Là trovi il Salve regina, e l'Ave maria stella, e il Dies irae, e drammi e vite di santi scritte da uomini eloquenti e appassionati. Anche in volgare comparivano già cantici e laudi: di Bonifazio papa c'è rimasto un breve e rozzo cantico alla Vergine. I fatti della Bibbia, la passione e morte di Cristo, le visioni e i miracoli de' santi, i lamenti e le preghiere delle anime purganti, le mistiche gioie del paradiso, i terrori dell'inferno, erano il tema comune de' predicatori e rappresentazioni nelle chiese e su per le piazze, sotto il nome di "misteri", "feste", "moralità". È rimasta memoria di una visione dell'inferno, con la quale Gregorio settimo quando era predicatore atterriva l'immaginazione de' suoi uditori: ed è visione di un fantastico e di una crudezza di colori che mette il brivido. In Morra, mio paese nativo, ricordo che nella festa della Madonna, quando la processione è giunta sulla piazza, comparisce l'angiolo, che fa l'annunzio. Ed è ancora la vecchia tradizione dell'angiolo, che allora apriva la rappresentazione, annunziando l'argomento. È nota la grande rappresentazione dell'altro mondo in Firenze, che, rottosi il ponte di legno sull'Arno, costò la vita a molte persone.

Questa materia religiosa, che ispirò tanti capilavori di pittura e di scultura e di architettura, era efficacissima fonte di poesia, congiungendo in sè il fantastico e l'affetto, il divino e l'umano, e nelle sue gradazioni dall'inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde dello spirito. La sua tendenza troppo ascetica e spirituale era vinta dal grosso senso popolare, che paganizzava e umanizzava tutto. In questa storia religiosa, il cui proprio teatro è l'altra vita, a cui questa è preparazione, l'uomo mescolava le sue passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le sue opinioni, i suoi amori. Maria era l'anello che giungeva la terra al cielo, e il devoto le parla con tutta familiarità, e le ricorda che la è stata pur donna. Iacopone dice:

Ricevi, donna, nel tuo grembo bello

le mie lacrime amare.

Tu sai che ti son prossimo e fratello,

e tu nol puoi negare.

Lei implora il trovatore nel suo colpevole amore, a lei si raccomanda anche oggi il brigante nelle sue scellerate spedizioni. Maria, Gesù, i santi, gli angioli, Lucifero non bastano: l'immaginazione popolare personifica le virtù, e ne fa un corteggio di figure allegoriche alla divinità, rappresentandole con ogni libertà, come fa Iacopone, e come si vede ne' bassirilievi e in tante opere di scultura e di pittura. E come il paganesimo ne' suoi ultimi tempi era interpretato allegoricamente, anche le figure pagane entrano in questo mondo, torte dal senso letterale e volte a significato generale, come Giove, Plutone, Amore, Apollo, le Muse, Caronte. Come il papa aspirava a far sua tutta la terra, la storia religiosa assorbiva in sè tutt'i tempi e tutte le storie. In questa mescolanza universale, opera di una immaginazione primitiva e ancor rozza, non hai luce uguale e non fusione di tinte: domina un fondo oscuro, il sentimento di un di là della vita, di un infinito non rappresentabile, superiore alla forma, che riempie lo spazio di grandi ombre; e quelle mescolanze di divino e di terreno, di antico e di moderno, di serio e di comico non sono ben fuse, anzi stannosi accanto crudamente, e in luogo di armonizzare producono un'impressione irresistibile di contrasto, di cose che cozzano. Quel difetto di luce è il gotico, e quel difetto di armonia è il grottesco: e però il gotico e il grottesco sono le prime forme artistiche di quel mondo, com'è nella sua prima ingenuità, non ancora vinto e domato dall'arte. Il sublime del gotico si sente nel Giudizio universale di Iacopone. Dove la veduta di Dio ti circonda, senza che tu lo veda, chiarissimo al sentimento, inaccessibile all'immaginazione. Il peccatore vede sonar le trombe, turbati i venti, l'aria immobile, e i fiumi fermarsi, e il mare muggire, e il fuoco volare per l'aria; dappertutto si sente inseguito dalla veduta di Dio, ma non lo guarda, non gli dà forma: non è un'immagine, è un sentimento senza forma, che riempie della sua ombra tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto di due versi stupendi, che sono veri decasillabi sotto apparenza di endecasillabo, pieni di movimento e di armonia:

ché la veduta di Dio mi circonda

e in ogni loco paura mi desta.

È il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi ombre di una cattedrale. Ma ciò che prevale in Iacopone è il grottesco, una mescolanza delle cose più disparate, senza nessun senso di convenienza e di armonia: il che, se fatto con intenzione, è comico; fatto con rozza ingenuità, è grottesco. Trovi il plebeo, l'indecente, il disgustoso misto coi più gentili affetti: ciò che è pure il carattere del santo con le sue estasi e le sue stravaganze. E questo in Iacopone non è già un contrasto che celi alte intenzioni artistiche, ma rozza natura, così discorde e mescolata come si trova nella realtà. Ecco il principio del cantico 48:

O Signor, per cortesia,

mandami la malsania;

a me la febbre guartana,

la continua e la terzana:

a me venga mal di dente,

mal di capo e mal di ventre,

mal de occhi e doglia di fianco

la postema al lato manco.

La poesia di Iacopone è proprio il contrario di quella de' trovatori. In questi è poesia astratta e convenzionale e uniforme, non penetrata di alcuna realtà. In Iacopone è realtà ancora naturale, non ancora spiritualizzata dall'arte; è materia greggia, tutta discorde, che ti dà alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico.

Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e di prima impressione spunta la vita morale, un certo modo di condursi con regola e prudenza; e anch'essa è nella sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o filosofia, è pura esperienza e tradizione, nella forma di motto o proverbio, che riassume la sapienza degli avi. Il motto rimato è la più antica forma di poesia nel nostro volgare. Ecco alcuni motti antichissimi:

Ancella donnea,

se donna follea.

In terra di lite

non poner la vite.

Uomo che ode, vede e tace

sì vuol vivere in pace.

Chi parla rado

tenuto è a grado.

Di questa fatta sono una filza di motti ammassati da Iacopone in un suo carme, una specie di catechismo a uso della vita, illustrati brevemente da qualche immagine o paragone, ora goffo, ora egregio di concetto e di forma. Sulla vanità della vita dice:

Lo fior la mane è nato,

la sera il vei seccato.

Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia che la elegante traduzione dello stesso concetto fatta dal Poliziano, la quale ti pare una Venere intonacata e lisciata:

Fresca è la rosa di mattino: e a sera

ella ha perduta sua bellezza altera.

I motti di Iacopone sono pensieri morali espressi per esempio e per immagini, come fa l'immaginazione popolare, e nella loro brevità e succo è il principale attrattivo.

Ove temi pericolo,

non fare spesso posa.

Sappi di polver tollere

la pietra preziosa,

e da uom senza grazia

parola graziosa;

dal folle sapienzia,

e dalla spina rosa.

Prende esempio da bestia

chi ha mente ingegnosa.

Vediamo bella immagine

fatta con vili deta;

vasello bello ed utile

tratto da sozza creta;

pigliam da laidi vermini

la preziosa seta,

vetro da laida cenere,

e da rame moneta.

Non dimandare agli uomini

che lor nega natura:...

e non pregar la scimia

di bella portatura,

nè il bue, nè l'asino

di dolce parladura...

Quel che non si conviene,

ti guarda di non fare:

nè messa ad uomo laico,

nè al prete saltare;

non dece spada a femmina,

nè ad uom lo filare...

Non piace se 'n suo loco

non ponesi la cosa:

innanzi che ti calzi,

guarda da qual piè è l'uosa.

Se leggi, non far punto

dove non è la posa;

dov'è piana la lettera,

non fare oscura glosa.

In ogni cosa al prossimo

ti mostra mansueto:...

Da nimistate guàrdati,

se vuoi viver quieto...

A quel modo conformati

che trovi nel paese:

al Genovese, in Genova,

ed in Siena, alsSanese...

Uomo che spesso volgesi,

da tuo consiglio caccia.

Se vedi volpe correre,

non dimandar la traccia:

non ti sforzare a prendere

più che non puoi con braccia:

ché nulla porta a casa

chi la montagna abbraccia.

Quando puoi esser umile,

non ti dimostrar forte:

il muro tu non rompere,

se aperte son le porte...

Con signore non prendere,

se tu puoi, quistione;

ch'ei ti ruba ed ingiuria

per piccola cagione,

e tutti gli altri gridano:

- Messere ha la ragione... -

Uomo senz'amicizia

castello è senza mura...

Quella è buona amicizia,

che d'ogni termpo dura:

povertà non la parte,

nè nulla ria ventura.

Quel che tu dici in camera

non dire in ogni loco:

a piaga metti unguento,

non vi mettere il foco...

E così hai motto a motto, spesso senz'altro legame che il caso, qual più, qual meno felice, in quella forma sentenziosa ed esemplata, che è propria dell'immaginazione popolare, prima ancora che nasca la favola e il racconto. E trovi certo più gusto in queste prime rozze formazioni così piene della vita e del sentire comune, che ne' sonetti e canzoni morali in forma più artificiosa, ma contorta e scolastica di Onesto e Semprebene e altri trovatori.

Questi uomini con tanti proverbi in bocca e con tanta divozione alla Madonna e a' santi, con l'immaginazione piena di leggende e avventure cavalleresche, avevano nel piccolo spazio del comune una vita politica ancora più vivace e concentrata, che non è oggi, allargata com'è e diffusa in quegl'immensi spazi che si chiamano "regni". Certo, i costumi si polivano, come la lingua; ma religione e cavalleria, misteri e romanzi, se colpivano le immaginazioni, poco bastavano a contenere e regolare le passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte municipali. Questa vita era troppo reale, troppo appassionata e troppo presente, perché potesse esser vista con la serenità e la misura dell'arte. Si manifesta con la forma grossolana dell'ingiuria, appena talora rallegrata da qualche lampo di spirito. Un esempio è il verso:

Quando l'asino raglia, un guelfo nasce.

Questa forma primitiva dell'odio politico, amara anche nel motteggio e nell'epigramma, e così sventuratamente feconda tra noi anche ne' tempi più civili, non esce mai dalle quattro mura del comune, con particolari e allusioni così personali, che manca con la chiarezza ogni interesse: prova ne sieno i sonetti di Rustico. Certo, in questo antico esempio di satira politica vedi il volgare condotto a tutta la sua perfezione, e ci senti uno spirito e una vivacità propria dell'acuto ingegno fiorentino. Ma che interesse volete voi che prendiamo per donna Gemma e messer Fastello e messer Messerino e ser Cerbiolino, con quel suo parlare sotto figura per allusioni, che non ne comprendiamo un'acca? Ciò che è meramente personale muore con la persona. Il comune sembra un castello incantato, dove l'uomo entrando ignori tutto ciò che vive e si muove al di fuori. Nessun vestigio de' grandi avvenimenti di cui l'Italia era stata ed era il teatro; niente che accennasse ad alcuna partecipazione alle grandi discussioni tra papato e impero, tra guelfi e ghibellini, o rivelasse un sentimento politico elevato e nazionale, al di sopra della cerchia del comune. Tutto è piccolo, tutto va a finire là, nella piccola maldicenza sulla piazza del comune. Di ciò che si passava in Italia, appena un'ombra trovi in un sonetto di Orlandino Orafo, eco delle preoccupazioni e ansietà pubbliche, quando Carlo d'Angiò andava ad investire re Manfredi in Benevento. Ma ciò che preoccupa Orlandino non è il risultato politico e nazionale della lotta, ma la grande strage che ne verrà:

Ed avverrà tra lor fera battaglia,

e fia sanfaglia - tal, che molta gente

sarà dolente - chi che ne abbia gioia.

E molti buon destrier coverti a maglia,

in quella taglia - saran per niente;

qual fia perdente - allor convien che muoia.

A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa impressione è la lotta in se stessa co' suoi accidenti. Lo diresti uno spettatore posto fuori de' pericoli e delle passioni de' combattenti, che contempla avido di emozioni i vari casi della pugna.

Questa rozzezza della vita italiana sotto i suoi vari aspetti, religioso, morale, politico, spicca più, perché in evidente contrasto con la precoce coltura scientifica, divenuta il principale interesse di quel tempo. La scienza era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipitavano a guardare. Ma la scienza era come il Vangelo, che s'imparava e non si discuteva. A quel modo che troiani, romani, franchi e saraceni, santi e cavalieri erano nell'immaginazione un mondo solo; Aristotile e Platone, Tommaso e Bonaventura erano una sola scienza. Il maggiore studio era sapere, e chi sapeva più era più ammirato; nessuno domandava quanta concordia e profondità era in quel sapere. Perciò venne a grandissima fama ser Brunetto Latini. Il suo Tesoro e il Tesoretto furono per lungo tempo maraviglia delle genti, stupite che un uomo potesse saper tanto, ed esporre in verso Aristotele e Tolomeo. Di che nessuno oggi saprebbe più nulla, se Dante non avesse eternato l'uomo e il suo libro in quei versi celebri:

sieti raccomandato il mio Tesoro nel quale io vivo ancora.

La scienza in Brunetto è materia così rozza e greggia, com'è la vita religiosa in Iacopone e la vita politica in Rustico. Il suo studio è di cacciar fuori tutto quello che sa, così crudamente come gli è venuto dalla scuola, e senza farlo passare a traverso del suo pensiero. Ciò che dice gli pare così importante, e pareva così importante a' suoi contemporanei, ch'egli non chiede altro, e nessuno chiedeva altro a lui. Quella sua enciclopedia non è che prosa rimata.

Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante, che compirono i loro studi nell'Università di Bologna, dalla quale uscì pure Cino da Pistoia. Si sente in tutti e tre la scuola di Guido Guinicelli. Amore si scioglie dalle tradizioni cavalleresche, e diviene materia di teologia e di filosofia. Si discute sulla sua origine su' suoi fenomeni e sul suo significato. Nella sua apparenza volgare esso adombra quella forza che move il sole e le stelle; il poeta lascia al volgo il senso letterale e cerca un soprasenso, il senso teologico e filosofico, di cui quello sia il velo. Il lettore con le sue abitudini scientifiche disprezza il fenomeno amoroso, e cerca dietro di quello la scienza. L'esistente non è per lui che un velo del pensiero, una forma dell'essere; Cino da Pistoia chiama Arrigo di Lussemburgo "forma del bene"; il corpo è un velo dello spirito; la donna è la forma di ogni perfezione morale e intellettuale: spiritualismo religioso e idealismo platonico si fondono e fanno una sola dottrina. L'allegoria, ch'era già prima la forma naturale di una coltura poco avanzata, diviene una forma fissa del pensiero teologico e filosofico, disposizione dello spirito aiutata dall'uso invalso di cercare il senso allegorico a spiegazione della mitologia e del senso letterale biblico. Ma il pensiero esercitato nelle lotte scolastiche era già tanto vigoroso che poteva anco bastare a se stesso ed avere la sua espressione diretta. Perciò nella poesia entra non solo l'allegoria, ma il nudo concetto scientifico, sviluppato dal ragionamento e da tutt'i procedimenti scolastici. Cino, Cavalcanti e Dante erano tra' più dotti e sottili disputatori che fossero mai usciti dalla scuola di Bologna. La loro mente robusta era stata educata a guardare in tutte le cose il generale e l'astratto, e a svilupparlo col sussidio della logica e della rettorica. Prima di esser poeti sono scienziati. Anche verseggiando, ciò che ammirano i contemporanei è la loro scienza.

Cino, maestro di Francesco Petrarca e del sommo Bartolo, fu dottissimo giureconsulto. Il suo comento sopra i primi nove libri del Codice fu la maraviglia di quell'età. Ristoratore del diritto romano, aperse nuove vie alla scienza, e non fu uomo, come dice Bartolo, che più di lui desse luce alla civil giurisprudenza. L'amore di Selvaggia lo fece poeta, ma non potè mutare la sua mente. In luogo di rappresentare i suoi sentimenti, come poeta, egli li sottopone ad analisi, come critico, e ne ragiona sottilmente. Posto fuori della natura e nel campo dell'astrazione, ogni limite del reale si perde, e quella stessa sottigliezza che legava insieme i concetti più disparati e ne traeva argomentazioni e conclusioni fuori di ogni realtà e di ogni senso comune, creava ora una scolastica poetica, o, per dirla col suo nome, una rettorica ad uso dell'amore, piena di figure e di esagerazioni, dove vedi comparire gli spiritelli d'amore che vanno in giro e i sospiri che parlano. In luogo di persone vive, abbondano le personificazioni. In un suo sonetto de' meglio condotti e di grande perfezione tecnica vuol dire che nella sua donna è posta la salute: mèta sì alta, che avanza ogni sforzo d'intelletto, e però non resta altro che morire. Questo è rettorica, non solo per la strana esagerazione del concetto, ma per il modo dell'esposizione scolastico e dottrinale.

Questa donna che andar mi fa pensoso,

porta nel viso la virtù d'Amore:

la qual fa disvegliare altrui nel core

lo spirito gentil che vi è nascoso.

Ella m'ha fatto tanto pauroso,

poscia ch'io vidi quel dolce signore

negli occhi suoi con tutto 'l suo valore,

che io le vo presso e riguardar non l'oso.

E s'avvien poi che quei begli occhi miri,

io veggio in quella parte la salute,

ove lo mio intelletto non può gire.

Allor si strugge sì la mia vertute,

che l'anima, che move li sospiri,

s'acconcia per voler del cor fuggire.

Una così strana esagerazione non può essere scusata che dall'impeto e dalla veemenza della passione. Ma qui non ce n'è vestigio; ed hai invece una specie di tèma astratto, che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio di rettorica. La prima quartina è una maggiore di sillogismo; intelletto, animo, core, sospiri, virtù di onore e spirito gentile sono le sottili distinzioni e astrazioni delle scuole. Esule ghibellino, si levò a grande speranza, quando seppe della venuta di Arrigo di Lussemburgo; e quando seppe della sua morte, scrisse una canzone. Quale materia di poesia! Dove dovrebbero comparire le speranze, i disinganni, le illusioni e i dolori dell'esule. Ma è invece una esposizione a modo di scienza sulla potenza della morte e l'immortalità della virtù. Ancora più astratta e arida è la canzone sulla natura d'amore di Guido Cavalcanti, dottissimo di filosofia e di rettorica: la qual canzone fu tenuta miracolo da' contemporanei.

Adunque, la vita religiosa, morale e politica era appena nella sua prima formazione, e la splendida vita che raggiava da Bologna era anch'essa materia greggia, pretta vita scientifica, messa in versi.

Siamo alla seconda metà del Dugento. La Sicilia, malgrado la sua Nina, è già nell'ombra. I due centri della vita italiana sono Bologna e Firenze, l'una centro del movimento scientifico, l'altra centro dell'arte. Nell'una prevaleva il latino, la lingua de' dotti; nell'altra prevaleva il volgare, la lingua dell'arte.

L'impulso scientifico partito da Bologna, traendosi appresso anche la poesia, dava il bando alla superficiale galanteria de' trovatori: il pubblico domandava cose e non parole. E si formò una coscienza scientifica ed una scuola poetica conforme a quella. Il tempo de' poeti spontanei e popolari finisce per sempre.

Il nuovo poeta scrive con intenzione. Più che poeta, egli è lume di scienza; si chiama Brunetto Latini, l'enciclopedico, Cino, il primo giureconsulto dell'età, Cavalcanti, filosofo prestantissimo, Dante, il primo dottore e disputatore de' tempi suoi. Scrivono versi per bandire la verità, spiegare popolarmente i fenomeni più astrusi dello spirito e della natura. La poesia è per loro un ornamento, la bella veste della verità o della filosofia, uso amoroso di sapienza, come dice Dante nel Convito. Ci è dunque in loro una doppia intenzione. Ci è una intenzione scientifica. Ma ci è pure una intenzione artistica, di ornare e di abbellire. L'artista comparisce accanto allo scienziato. Questo doppio uomo è già visibile in Guido Guinicelli.

È in Toscana, massime in Firenze, che si forma questa coscienza dell'arte. Il volgare, venuto già a grande perfezione, era parlato e scritto con una proprietà e una grazia, di cui non era esempio in nessuna parte d'Italia. Se i poeti superficiali dispiacevano a Bologna, i poeti incolti e rozzi non piacevano a Firenze. A lungo andare non vi poterono essere tollerati Guittone e Brunetto, e sorgeva la nuova scuola, la quale, se a Bologna significava scienza, a Firenze significava "arte".

Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è già notato in Cino. Egli scrive con manifesta intenzione di far rime polite e leggiadre, e cerca non solo la proprietà, ma anche la venustà del dire. Aveva animo gentile e affettuoso, e orecchio musicale. Se a lui manca l'evidenza e l'efficacia, virtù della forza, non gli fa difetto la melodia e l'eleganza, con una certa vena di tenerezza. Fu il precursore del grande suo discepolo, Francesco Petrarca.

Ecco un esempio della sua maniera:

Poiché saziar non posso gli occhi miei

di guardare a Madonna il suo bel viso,

mireròl tanto fiso

ch'io diverrò beato lei guardando.

A guisa di Angel che di sua natura

stando su in altura divien beato sol vedendo Iddio;

così, essendo umana creatura,

guardando la figura

di questa donna, che tiene il cor mio,

potrei beato divenir qui io.

Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della sua donna, che ispirò le tre sorelle del Petrarca, il quale ne imitò anche la fine, che è piena di grazia:

Or se prendete a noia

lo mio amor, occhi d'amor rubegli,

foste per comun ben stati men begli.

Agli occhi della forte mia nemica

fa', canzon, che tu dica:

- Poi che veder voi stessi non possete,

vedete in altri almen quel che voi sète. -

E ci ha pure parecchi sonetti, dove Cino in luogo di filosofare e sottilizzare si contenta di rappresentare con semplicità il suo stato, e sono teneri ed affettuosi. Meno apparisce dotto, e più si rivela artista.

La coscienza artistica si mostra in Cino nelle qualità tecniche ed esteriori della forma. La sua principale industria è di sviluppare gli elementi musicali della lingua e del verso, nè fino a quel tempo la lingua sonò sì dolce in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo polito, da cui sia rimossa ogni asprezza e ineguaglianza Ma qualità più serie e più profonde si rivelano in Guido Cavalcanti. Anche in lui la perfezion tecnica è somma, anzi in lui è scienza. Innamorato della lingua natia, pose ogni studio a dirozzarla, e fissarla, e scrisse una gramatica e un'arte del dire. Egli, nota Filippo Villani, dilettandosi degli studi rettorici, essa arte in composizioni di rime volgari elegantemente e artificiosamente tradusse. Di che si vede quanta impressione dovè fare su' contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte. Così Guido divenne il capo della nuova scuola, il creatore del nuovo stile, e oscurò Guido Guinicelli:

Così ha tolto l'uno all'altro Guido

la gloria della lingua.

Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti: sostanza era la filosofia. Perciò aveva a disdegno Virgilio, parendogli, dice il Boccaccio, "la filosofia, siccome ella è, da molto più che la poesia". Sottilissimo dialettico, come lo chiama Lorenzo de' Medici, introduce nella poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche, e mira a questo, non solo di dir bene, ma dir cose importanti. I contemporanei studiarono la sua canzone dell'Amore, come si fa un trattato filosofico, e ne fecero comenti, come si soleva di Aristotele e di san Tommaso: anche più tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone. Così Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso ed elegante dicitore, ma come sommo filosofo.

Questo voleva Guido, e questo ottenne, questo gli bastò ad acquistare il primo posto fra' contemporanei. Salutavano in lui lo scienziato e l'artista.

Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu benemerito della scienza perché la divulgò, non perché vi lasciasse alcuna sua orma propria. E fu artefice più che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della forma: vanto non piccolo, ma che tocca la sola superficie dell'arte.

La gloria di Guido fu là, dov'egli non cercò altro che un sollievo e uno sfogo dell'animo. Fu là, ch'egli senza volerlo e saperlo si rivelò artista e poeta. Vi sono uomini che i contemporanei ed essi medesimi sono incapaci di apprezzare. Guido era più grande ch'egli stesso e i suoi contemporanei non sapevano.

Guido è il primo poeta italiano degno di questo nome, perché è il primo che abbia il senso e l'affetto del reale. Le vuote generalità de' trovatori, divenute poi un contenuto scientifico e rettorico, sono in lui cosa viva, perché, quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni e i sentimenti dell'anima. La poesia, che prima pensava e descriveva, ora narra e rappresenta, non al modo semplice e rozzo di antichi poeti, ma con quella grazia e finitezza a cui era già venuta la lingua, maneggiata da Guido con perfetta padronanza. Qui sono due forosette, egregiamente caratterizzate, che gli cavano di bocca il suo segreto d'amore. Là è una pastorella che incontra nel boschetto, e ti abbozza una scena d'amore colta dal vero. Sono gli stessi concetti de' trovatori, ma realizzati, non solo ornati e illeggiadriti al di fuori, ma trasformati nella loro sostanza, divenuti caratteri, immagini, sentimenti, cioè a dire vita e azione. Senti là dentro l'anima dello scrittore, ora lieta e serena che si esprime con una grazia ineffabile, come nelle ballate delle forosette e della pastorella, ora penetrata di una malinconia che si effonde con dolcezza negli amabili sogni dell'immaginazione e nella tenerezza dell'affetto, come nella ballata, che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il presentimento della morte. Qui lo scienziato sparisce e la rettorica è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro, naturale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il sentimento e l'espressione. Il poeta non pensa a gradire, a cercare effetti, a fare impressione con le sottigliezze della dottrina e della rettorica: scrive se stesso, come si sente in un certo stato dell'animo, senz'altra pretensione che di sfogarsi, di espandersi, segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino. I posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sè:

Io mi son un, che quando

Amor mi spire, noto, e a quel modo

ch'ei detta dentro, vo significando.

Il che non avvenne di Lentino, di Guittone, rimasti al di qua del "dolce stil nuovo", perché esagerarono i sentimenti, andarono al di là della natura, per "gradire", piacere a' lettori.

E qual più a gradire oltre si mette,

non vede più dall'uno all'altro stilo.

Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro fu Cino, il poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola non era altro che una coscienza più chiara dell'arte. La filosofia per sè sola fu stimata insufficiente, e si richiese la forma. Guittone d'Arezzo non fu più apprezzato, quantunque "di filosofia ornatissimo, grave e sentenzioso", come dice Lorenzo de' Medici, perché gli mancava lo stile, "alquanto ruvido e severo, nè di alcun dolce lume di eloquenza acceso". Anche Benvenuto da Imola chiama nude le sue parole e lo commenda per le gravi sentenze, ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un nuovo senso, il senso della forma.

A quel tempo fra tante feroci gare politiche la letteratura era nel suo fiore in tutta Toscana e sotto i più diversi aspetti. Dante da Maiano era un'eco de' trovatori, con la sua Nina siciliana. Guittone, Brunetto, Orbiciani da Lucca erano poeti dotti, ma rozzi, come i bolognesi Onesto e Semprebene. Ma già il culto della forma, l'amore del bello stile si sente in parecchi poeti. Dino Frescobaldi, Rustico di Filippo, Guido Novello, Lapo Gianni, Cecco d'Ascoli sono il corteggio, nel quale emerge la figura di Guido Cavalcanti.

Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di Dante Alighieri, legati insieme da un'amicizia che non si ruppe se non per morte. Parvero le "nuove rime", e fu tale l'impressione ch'ei salì subito accanto a Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il problema di esprimere le profondità della scienza in bella forma: ultimo segno a cui si mirava. Perciò ebbe molta voga la sua canzone:

Donne, che avete intelletto d'amore;

e ancora più l'altra:

Voi che intendendo il terzo ciel movete.

Dante avea la stessa opinione. Il dotto discepolo di Bologna mira poetando a divulgare la scienza, usando modi piani e aperti alla intelligenza comune. Nella canzone, dove esorta la donna a dispregiare uomo che "da sè virtù fatta ha lontana", dice:

Ma perocché il mio dire util vi sia,

discenderò del tutto

in parte ed in costrutto

più lieve, perché men grave s'intenda;

ché rado sotto benda

parola oscura giugne allo 'ntelletto;

par che parlar con voi si vuole aperto.

E quando pure è costretto a celare sotto benda i suoi concetti aggiunge un comento in prosa e dichiara egli medesimo la sua dottrina. Tale è il comento che fa alla canzone:

Voi che intendendo il terzo ciel movete;

e parendogli che senza quel comento la canzone presa in se stessa rimanga fuori dell'intelligenza volgare, finisce così:

Canzone, io credo che saranno radi

color che tua ragion intendan bene,

tanto lor parli faticosa e forte:

onde se per ventura egli addiviene

che tu dinanzi da persone vadi,

che non ti paian d'essa bene accorte;

allor ti priego che ti riconforte,

dicendo lor, diletta mia novella:

- Ponete mente almen com'io son bella. -

C'era dunque nell'intenzione di Dante di bandire i veri della scienza ora nella forma diretta del ragionamento, ora sotto il velo dell'allegoria, ma in modo che la poesia quando anche non fosse compresa da' più, avesse un valore in se stessa, fosse bella e dilettasse. Era la teoria della nuova scuola nella sua più alta espressione, una coscienza artistica più chiara e più sviluppata. Il rispetto della verità scientifica è tale, che Dante si domanda come, essendo Amore non sostanza, ma accidente, possa egli farlo ridere e parlare, come fosse persona. E adduce a sua difesa che i rimatori, che fanno versi in volgare, hanno gli stessi privilegi de' poeti, nome che dà a' latini, i quali, come Virgilio, Ovidio, Lucano, Orazio, diedero moto e parole alle cose inanimate: il che egli chiama "rimare sotto vesta di figura o di colore rettorico", qualificando rimatori stolti quelli che domandati non sapessero "dinudare le loro parole da cotal vesta". Onde si vede che Dante e Cavalcanti, ch'egli qui chiama il suo primo amico, spregiavano e questi rimatori stolti che usavano rettorica vuota di contenuto, e quelli che ti davano un contenuto scientifico nudo, senza rettorica. Qui è tutta la nuova scuola poetica, rimasa per molti secoli l'ultima parola della critica italiana: ciò che il Tasso chiamò "condire il vero in molli versi".

Con queste teorie, con queste abitudini della mente, parecchie canzoni e sonetti sono ragionamenti con lume di rettorica, concetti coloriti. Di tal natura è la canzone sulla gentilezza o nobiltà:

Le dolci rime d'amor ch'i' solìa

e l'altra:

Amor, tu vedi ben che questa donna,

dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta gli effetti che sul suo animo produce lo studio della filosofia. I fenomeni dell'amore e della natura sono spiegati scientificamente, più che rappresentati, com'è l'inverno nella canzone:

Io son venuto al punto della rota,

e come è l'amore nella canzone:

Amor che muovi tua virtù dal cielo,

e come è la bellezza nella canzone:

Amor ci è nella mente mi ragiona.

Delle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessibile e popolare è quella delle tre donne, Drittura, Larghezza, Temperanza, germane d'amore, che cacciate dal mondo vanno mendicando.

Ciascuna par dolente e sbigottita

come persona discacciata e stanca,

cui tutta gente manca,

e cui virtute e nobiltà non vale.

Tempo fu già, nel quale

secondo il lor parlar, furon dilette

Or sono a tutti in ira ed in non cale.

Qui il poeta non ragiona, ma narra e rappresenta. Il concetto scientifico è vinto dalla vivacità della rappresentazione e dalla elevatezza del sentimento. Il colore rettorico non è semplice colorito, ma è la sostanza.

In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra forza e vivacità e ricchezza di concetti e di colori che i due Guidi. Egli fu il suo proprio comentatore, avendo nella Vita nuova e nel Convito spiegata l'occasione, il concetto, la forma delle sue poesie. E quanto alla parte tecnica, all'uso della lingua, del verso e della rima, nel suo libro De vulgari eloquio mostra che ne intendeva tutt'i più riposti artifici. I contemporanei trovavano in queste poesie il perfetto esempio della loro scuola poetica: la maggior dottrina sotto la più leggiadra veste rettorica.

Il mondo lirico di Dante è la stessa materia che s'era ita finora elaborando, con maggior varietà e con più chiara coscienza. Il dio di questo mondo è Amore, prima con le ammirazioni, i tormenti e le immaginazioni della giovanezza, poi con un misticismo ed un entusiasmo filosofico. Amore non può operare che ne' cuori gentili: perciò gli amanti sono chiamati fini e cortesi. Gentilezza non nasce da nobiltà o da ricchezza, ma da virtù. E però le virtù sono suore d'Amore e fanno star lucente il suo dardo finché sono onorate in terra. Ma la virtù è in pochi, e l'amore è perciò "di pochi vivanda". L'obbietto dell'amore è la bellezza, non il "bello di fuori", le parti nude, ma il "dolce pomo", concesso solo a chi è amico di virtù. La bellezza non si mostra se non a chi la intende: amore è chiamato dagli antichi "intendanza", e Dante non dice "sentire amore", ma "avere intelletto d'amore". Ad appagare l'amore basta il vedere, la contemplazione. Vedere è amore, amore è intendere.

E chi la vede e non se n'innamora

d'amor non averà mai intelletto.

Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:

Voi che intendendo il terzo ciel movete.

Dio move l'universo pensando:

costei pensò chi mosse l'universo.

Nè altro è amore nell'uomo che "nova intelligenza che lo tira su", lo avvicina alla prima intelligenza. La donna esemplare della bellezza è "nobile intelletto":

... O nobile intelletto

oggi fu l'anno che nel ciel partisti.

La donna è perciò il viso della conoscenza, la bella faccia della scienza, che invaghisce l'uomo e sveglia in lui nova intelligenza lo fa intendere. La donna dunque è la scienza essa medesima, è la filosofia nella sua bella apparenza: e questo è la bellezza il dolce pomo consentito a pochi. Intendere è amore, e amore è operare come s'intende; perciò filosofia è "uso amoroso di sapienza", scienza divenuta azione mediante l'amore. La virtù non è altro che sapienza, vivere secondo i dettati della scienza. Perciò l'amante è chiamato saggio; e la donna è saggia prima di esser bella:

Beltade appare in saggia donna pui

che piace agli occhi...

La beltà non è altro che l'apparenza della saggezza, sì che piaccia e innamori di sè.

Con questo misticismo filosofico si accordava il misticismo religioso, secondo il quale il corpo è il velo dello spirito, e la bellezza è la luce della verità, la faccia di Dio, somma intelligenza, contemplazione degli angioli e dei santi. Dio, gli angioli, il paradiso rappresentano anche qui la loro parte. Teologia e filosofia si danno la mano.

È la prima volta che questo contenuto esce fuori nella sua integrità e con così perfetta coscienza. È l'idealismo di quel tempo, con la sua forma naturale, l'allegoria. Aggiungi l'opera della immaginazione, che dà alle figure tanta vivacità di colorito ed hai l'ultimo segno di perfezione che si poteva allora desiderare.









III - LA LIRICA DI DANTE

Fin qui giunge la coscienza di Dante. Se gli domandi più in là, ti risponde come Raffaello: "Noto, quando Amor mi spira", ubbidisco all'ispirazione. E appunto, se vogliamo trovar Dante, dobbiamo cercarlo qui, fuori della sua coscienza, nella spontaneità della sua ispirazione. Innanzi tutto, Dante ha la serietà e la sincerità dell'ispirazione. Chi legge la Vita nuova, non può mettere in dubbio la sua sincerità. Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo di astronomia e di cabala, di filosofia e di rettorica, di Ovidio e di Virgilio, di poeti e di rimatori; ma tutto questo non è la sostanza del libro, ci entra come colorito e ne forma il lato grottesco. Sotto l'abito dello studente ci è un cuore puro e nuovo, tutto aperto alle impressioni, facile alle adorazioni e alle disperazioni, ed una fervida immaginazione che lo tiene alto da terra e vagabondo nel regno de' fantasmi. L'amore per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che nel cuore. Beatrice è più simile a sogno, a fantasma, a ideale celeste, che a realtà distinta e che produca effetti propri. Uno sguardo, un saluto è tutta la storia di questo amore. Beatrice morì angiolo, prima che fosse donna, e l'amore non ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un sospiro. Appunto perché Beatrice ha così poca realtà e personalità, esiste più nella mente di Dante che fuori di quella, ed ivi coesiste e si confonde con l'ideale del trovatore, l'ideale del filosofo e del cristiano: mescolanza fatta con perfetta buona fede, e perciò grottesca certo, ma non falsa e non convenzionale. Queste che presso gli altri sono astrattezze scolastiche e rettoriche, qui sono cacciate nel fondo del quadro, sono non il quadro, ma contorni e accessorii. Il quadro è Beatrice, non così reale che tiri e chiuda in sè l'amante, ma reale tanto che opera con efficacia sul suo cuore e sulla sua immaginazione. Non ci è proprio l'amante, ma ci è il poeta, che per questo o quello incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere se stesso in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo è tranquillo, fa capolino il dottore, il retore e il rimatore; ma quando il suo animo è veracemente commosso, Dante gitta via il suo berretto di dottore e le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze poetiche, e ubbidisce a l'ispirazione. Allora è Beatrice, solo Beatrice, che occupa la sua mente, e le sue impressioni, appunto perché immediate e sincere, sono quasi pure di ogni mescolanza. Il suo amore si rivela schietto come lo sente, più adorazione e ammirazione che appassionato amore di donna. Tale è il sonetto

Tanto gentile e tanto onesta pare.

E tale è la ballata, ove con la grazia e l'ingenuità di una fanciulla scesa pur ora di cielo così parla Beatrice:

Io mi son pergoletta bella e nova,

e son venuta per mostrarmi a vui

dalle bellezze e loco, dond'io fui.

Io fui del cielo e tornerovvi ancora,

per dar della mia luce altrui diletto;

e chi mi vede e non se ne innamora,

d'amor non averà mai intelletto...

Ciascuna stella negli occhi mi piove

della sua luce e della sua virtute:

le mie bellezze sono al mondo nuove,

perocché di lassù mi son venute.

Questo non è allegoria, e non è concetto scientifico; o per dir meglio, ci è l'allegoria e ci è il concetto scientifico, ma profondato ed obbliato in questa creatura, perfettamente realizzato, conforme a quel primo ideale della donna che apparisce all'immaginazione giovanile.

Se nell'espressione di questa ingenua ammirazione trovi qualche reminiscenza di repertorio e qualche preoccupazione scientifica, senti un accento di verità puro ed autonomo nell'espressione del dolore, la vera musa di questa lirica. Perché infine questa breve storia d'amore ha rari intervalli di gioia serena e contemplativa; la morte del padre di Beatrice, il suo dolore, il presentimento della sua morte e la sua morte sono la sostanza del quadro, il motivo tragico della poesia. Finché Beatrice vive, è un secreto del cuore che il poeta s'industria con ogni più sottile arte di custodire; la storia è poco interessante, intessuta di artificiose e fredde dissimulazioni: ma quando quell'ideale della giovanezza minaccia di scomparire, quando scompare, al poeta manca con quello il fondamento della sua vita, e si sente solo e si sente morire insieme con quello. Ne nasce una situazione nuova nella storia della nostra poesia: l'amore appena nato, simile ancora a' primi fuggevoli sogni della giovanezza, che acquista la sua realtà presso alla tomba ed oltre la tomba. L'amore si rivela nella morte. Là perde quell'aria fattizia e convenzionale, che gli veniva da' trovatori e dalla scienza. Là non è più concetto, nè allegoria, ma è sentimento e fantasia. Quell'amore che in vita della donna non si è potuto ancora realizzare, eccolo qui nella sua schietta e pura espressione, ora che Beatrice muore. A questa situazione si rannoda la parte più eletta e poetica di questa lirica. Poi vengono sentimenti più temperati: il poeta si consola cantando la loda della morta; Beatrice, ita nel cielo, diviene la Verità, la cara immagine sotto la quale il poeta inviluppa le sue speculazioni, la bella faccia della Sapienza. Non hai più la Vita nuova, hai il Convito. L'amore non è più un sentimento individuale, ma è il principio della vita divina e umana. Beatrice nella sua gloriosa trasfigurazione diviene un simbolo, il dolce nome che il poeta dà al suo nuovo amore, alla Filosofia.

Ma la filosofia non è in Dante astratta scienza: è Sapienza, cioè a dire pratica della vita. Con che orgoglio si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di virtù, che ti fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza di sangue, e ti dà la vera nobiltà, che ti viene da te e non dagli altri. Intendere è per lui il principio del fare; e la forza che dà attività all'intelletto ed efficacia alla volontà è l'amore. In questa triade è l'unità della vita: l'uno non può star senza l'altro. Or tutto questo in Dante non è mera speculazione, nè vanità scientifica; ma è vero amore, ma è un sentimento morale così profondo ed efficace, come è la fede ne' credenti. La filosofia investe tutto l'uomo, e si addentra in tutti gli aspetti della vita. Questa serietà e sincerità di sentimento fa penetrare fra tante sottili e scolastiche speculazioni una elevatezza morale, tanto più poetica, quanto meno espressa, ma che si sente nel tono, nel colorito, nello stile. Tale è la sublime risposta di Amore alle sorelle esuli, e quel subito ritorno del poeta in sè medesimo:

L'esilio che m'è dato onor mi tegno;

e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria, quanta è nella canzone sulla vera gentilezza. La quale elevatezza morale non è disgiunta in lui da un certo orgoglio direi aristocratico del sentirsi solo con pochi privilegiato da Dio alla sapienza: così alto ha collocato l'ideale della scienza e della virtù:

... elli son quasi dèi

que' ch'han tal grazia fuor di tutt'i rei;

ché solo Iddio all'anima la dona.

Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini, "bestie che somigliano uomo. E dove non è virtù, non è amore, e non dovrebbe esser bellezza: onde esorta le donne a partirla da loro:

Chè la beltà ch'Amore in voi consente

a virtù solamente

formata fu dal suo decreto antico

contra lo qual fallate.

Io dico a voi che siete innamorate,

che se beltate a voi

fu data e virtù a noi,

ed a costui di due potere un fare,

voi non dovreste amare,

ma coprir quanto di beltà v'è dato

poiché non è virtù, ch'era suo segno.

Lasso! A che dicer vegno?

Dico che bel disdegno

sarebbe in donna di ragion lodato

partir da sè beltà per suo comiato.

Qui sviluppato in forma scolastica è il solito concetto dell'amore, che fa uno di due, unisce bellezza e virtù. Ma questo concetto è per Dante cosa vivente, è l'anima del mondo, l'unità della vita. E poiché vede bellezza, e non trova virtù, sente nella vita una scissura, una discordia, che lo move a sdegno. Indi quel movimento d'immaginazione così nuovo e originale, quel desiderare nella donna e sperar poco un atto di "bel disdegno", per il quale dica: - Poiché nell'uomo non è virtù, cesso di esser bella, cesso di amare. - Dante si crede obbligato ad argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e qui è il suo torto, qui è la forma che lo certifica di quel tempo; ma qui il concetto scientifico e la sua esposizione scolastica è un accessorio; la sostanza è il sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel concetto e la realtà: "Lasso! a che dicer vegno?". Il poeta sente la vanità de' suoi desidèri e che il mondo andrà sempre a quel modo.

Come l'amore si afferma nella morte, così la filosofia si afferma nella sua morte, cioè nella sua contraddizione con la vita. Qui trovi un sentimento chiaro e vivo dell'unità della vita, fondata nella concordia dell'intendere e dell'atto o, come si direbbe oggi, dell'ideale e del reale, e insieme il dolore della scissura, che mette il poeta in uno stato di ribellione contro l'uomo "caduto in servo di signore", già signore di sè, ora servo delle sue inclinazioni animali. Ma il sentimento di questa contraddizione non uccide l'entusiasmo e la fede, come ne' poeti moderni: l'anima del poeta è ancora giovane, piena di una fede robusta, che il disinganno nobilita e fortifica; e però il dolore del disaccordo non lo conduce alla negazione della filosofia, anzi alla sua glorificazione, ad un più ardente amore della derelitta, fiero di possederla e amarla egli solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi Dio tra la gregge degli uomini.

Adunque, il primo carattere di questo mondo lirico è la sua verità psicologica. Se c'è negli accessorii alcunche di fattizio e di convenzionale, il fondo è vero, è la sincera espressione di quello che si passa nell'animo del poeta. Ti senti innanzi ad un uomo che considera la vita seriamente. La vita è la filosofia, la verità realizzata; e la poesia è la voce e la faccia della verità. Amico della filosofia, con orgoglio non minore si chiama poeta, il banditore del vero. Filosofo e poeta, si sente come investito di una missione, di una specie di apostolato laicale, e parla dal tripode alla moltitudine, con l'autorità e la sicurezza di chi possiede la verità.

Ma il sentimento che move questo mondo lirico così serio e sincero non rimane puramente individuale o subiettivo; anzi la parte personale e contingente appena si mostra: esso è l'accento lirico dell'umanità a quel tempo, la sua forma di essere, di credere, di sentire e di esprimersi. Quell'angeletta scesa dal cielo, che non giunge ad esser donna, breve apparizione, che ritorna al cielo in bianca nuvoletta, seguita dagli angioli che le cantano "Osanna", ma rimasa in terra, come luce della verità, della quale l'amante si fa apostolo, è tutto il romanzo religioso e filosofico di quell'età: è la vita che ha la sua verità nell'altro mondo e che qui non è che Beatrice, fenomeno, apparenza, velo della eterna verità. Se la terra è un luogo di passaggio e di prova, la poesia è al di là della terra, nel regno della verità. Beatrice comincia a vivere quando muore.

Un mondo così mistico e spiritualista nel concetto, così dottrinale nella forma, se può essere allegoricamente rappresentato dalla scultura, se trova nella pittura e nella musica le sue movenze, le sue sfumature, il suo indefinito, è difficilissimo a rappresentare con la parola. Perché la parola è analisi, distinzione, precisione, e non può rappresentare che un contenuto ben determinato, e ne' suoi momenti successivi, più che nella sua unità. Analizzate questo mondo, e vi svanisce dinanzi, come realtà o vita: l'analisi vi porta irresistibilmente al discorso, al ragionamento, alla forma dottrinale, che è la negazione dell'arte. Non bisogna dimenticare che la vita interna di questo mondo è la scienza, come concetto e come forma, la pura scienza, non penetrata ancora nella vita e divenuta fatto. È vero che per Dante la scienza dee essere non astratto pensiero, ma realtà. Se non che il male è appunto in questo "dee essere". Perché, prendendo a fondamento non quello che è, ma quello che dee essere, la sua poesia è ragionamento, esortazione, non rappresentazione, se non in forma allegorica, che aggiunge una nuova difficoltà ad un contenuto così in se stesso astruso e scientifico.

I contemporanei sentirono la difficoltà e credettero vincerla con la rettorica, ornando quei concetti di vaghi fiori. Anche Dante credeva rendere poetica la filosofia, dandole una bella faccia. Certo, questo era un progresso; ma siamo ancora al limitare dell'arte, nel regno dell'immaginazione. Guinicelli, Cino, Cavalcanti non possono attirare la nostra attenzione, e neppur Dante, ancorché dotato di una immaginazione così potente. Anzi egli riesce meno di questi suoi predecessori nell'arte dell'ornare e del colorire, perché quelli vi pongono il massimo studio, non essendo il mondo da essi rappresentato che un gioco d'immaginazione, dove a Dante quel mondo è lui stesso, parte del suo essere, e che ha la sua importanza in se stesso: ond'egli è sobrio, severo, schivo del "gradire", e spesso nudo sino alla rozzezza. E non corre agli ornamenti, come mezzo rettorico e a fine di ornare e di lisciare, ma per rendere palpabile ed evidente il suo concetto.

Ma Dante vince in gran parte la difficoltà appunto per questo, che quel mondo è vita della sua vita e anima della sua anima. Esso opera non pure sulla sua mente, ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in quel mondo non è però sufficiente a farne un poeta. La fede è la base, il sottinteso, la condizione preliminare e necessaria della poesia, ma non è la poesia. Il poeta dee essere un credente, ma non ogni credente è poeta; può essere un santo, un apostolo, un filosofo. Dante non fu il santo, nè il filosofo del suo mondo: fu il poeta. La fede svegliò le mirabili facoltà poetiche che avea sortito da natura.

Dante ha in supremo grado la principale facoltà di un poeta, la fantasia, che non si vuol confondere con l'immaginazione, facoltà molto inferiore. L'immaginazione ti dà l'ornato e il colore, liscia la superficie: il suo maggiore sforzo è di offrirti un simulacro di vita nell'allegoria e nella personificazione. La fantasia è facoltà creatrice, intuitiva e spontanea, è la vera musa, il "deus in nobis", che possiede il secreto della vita, e te la coglie a volo anche nelle sue più fuggevoli apparizioni, e te ne dà l'impressione e il sentimento. L'immaginazione è plastica; ti dà il disegno, ti dà la faccia: "pulcra species, sed cerebrum non habet": l'immagine è il fine ultimo in cui si adagia. La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non come espressione e parola della vita interiore. L'immaginazione è analisi, e più si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, più le fugge il sostanziale, quel tutto insieme, in cui è la vita. La fantasia è sintesi: mira all'essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni e i sentimenti di persona viva e te ne porge l'immagine. La creatura dell'immaginazione è l'immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia è il "fantasma", figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito. L'immaginazione ha molto del meccanico, è comune alla poesia e alla prosa, a' sommi e a' mediocri; la fantasia è essenzialmente organica, ed è privilegio di pochissimi che son detti Poeti.

Il mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo secolo, così mistico e spirituale, resiste a tutti gli sforzi dell'immaginazione. In balìa di questa esso non è che un mondo rettorico e artificiale, di bella apparenza, ma freddo e astratto nel fondo. Tale è il mondo di Guinicelli, di Cavalcanti e di Cino. L'organo naturale di questo mondo è la fantasia, e la sua forma è il fantasma. Il suo primo e solo poeta è Dante, perché Dante ha l'istrumento atto a generarlo, è la prima fantasia del mondo moderno.

Dante non accarezza l'immagine, non vi s'indugia sopra, se non quando essa è lume che come paragone dia una faccia al suo concetto. Sia d'esempio la sua canzone all'Amore:

Amor che movi tua virtù dal cielo

come 'l sol lo splendore,

ché là s'apprende più lo suo valore,

dove più nobiltà suo raggio trova...

Ed hammi in foco acceso,

come acqua per chiarezza foco accende...

È sua beltà del tuo valor conforto,

in quanto giudicar si puote effetto

sopra degno suggetto,

in guisa che al sol raggio di foco;

lo qual non dà a lui, nè to' virtute;

ma fallo in alto loco

nell'effetto parer di più salute.

Queste immagini non sono il concetto esso medesimo, ma paragoni atti a lumeggiarlo. È la maniera del Guinicelli. Costui se ne pavoneggia, e vi spiega un lusso e una pompa che passa il segno e affoga il concetto nell'immagine. Dante è più severo, perché il concetto non gli è indifferente e non te ne distrae, anzi per troppo amore a quello spesso te lo porge nodo e irsuto com'è da natura. Ma egli penetra in questo mondo di concetti e ne fa il suo romanzo, la sua storia intima. Il concetto allora, non che abbia bisogno di essere illuminato da una immagine tolta dal di fuori, è trasformato, è esso medesimo l'immagine. In quest'opera di trasformazione si rivela la fantasia. Pigmalione non è più una statua di marmo; ma riscaldato dall'amorosa fantasia diviene persona. La donna astratta e anonima del trovatore, divenuta innanzi alla filosofia un'idea platonica, l'esemplare di ogni bellezza e di ogni virtù, eccola qui persona viva: è Beatrice, quell'angeletta scesa dal cielo, che annunzia alle genti il suo arrivo e racconta la sua bellezza:

Ciascuna stella negli occhi mi piove

della sua luce e della sua virtute.

Ma questo lavoro di trasformazione non va così innanzi che il concetto sia come seppellito e dimenticato nell'immagine (miracolo dell'arte greca), nè questo avviene per manco di calore e di fantasia. Dante è così immedesimato con quel suo mondo intellettuale e mistico, che la sua fantasia non può oltrepassarlo, non può materializzarlo. In questa dissonanza può capitare l'artista a cui il contenuto sia indifferente e che intenda alla perfezione del modello, non il poeta che ha un culto per il suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la sua regola e il suo limite. Dante non può paganizzare quel mondo dello spirito, appunto perché esso è il suo spirito, il suo mondo, il suo modo di sentire e di concepire. La sua immagine è ricordevole e trascendente, e appena abbozzata è già scorporata, fatta impressione e sentimento. Non descrive: non può fissare e determinare l'immagine, come quella a cui l'intelletto non giunge. Gli sta innanzi un non so che, luce intellettuale, superiore all'espressione, visibile non in se stessa ma nelle sue impressioni. Perciò esprime non quello che ella è, ma quello che pare. Ciò che è più chiaro innanzi alla sua immaginazione, non è il corpo, ma lo spirito, non è l'immagine, ma il suo "parere", l'impressione:

Quel ch'ella par, quando un poco sorride,

non si può dicer, nè tenere a mente:

sì è novo miracolo e gentile.

... .....

Ed avea seco umiltà sì verace,

che parea che dicesse: - Io sono in pace. -

E par che dalla sua labbia si mova

... .....

uno spirto soave e pien d'amore,

che va dicendo all'anima: - Sospira. -

Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Beatrice, e non fa che esprimere impressioni. Beatrice non la vedi mai. Ella è come Dio, nel santuario. Non la vedi, ma senti la sua presenza in quel mondo tutto pieno di lei. Ella piange la morte del padre. Lo sguardo del poeta non è là. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel pianto delle donne che gli sono intorno, che la udirono, e non osarono di guardarla:

che qual l'avesse voluta mirare,

saria dinanzi a lei caduta morta.

Beatrice saluta, e

... . ogni lingua divien tremando muta

e gli occhi non l'ardiscon di guardare.

Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna parola e nessun atto, non restano che due immagini: del nascere e del morire, l'angeletta scesa di cielo, che torna al cielo bianca nuvoletta. Dante non vede lei morire. La vede in sogno, e già morta, e quando le donne la coprian di un velo. Ma se della morte non ci è l'immagine, ce n'è il vivo sentimento:

... Morte, assai dolce ti tegno:

tu dèi omai esser cosa gentile,

poi che tu se' nella mia donna stata,

e dèi aver pietate e non disdegno.

Vedi, ch' è sì desideroso vegno

d'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.

Vieni, ché 'l cor ti chiede.

L'universo muore con Beatrice:

Ed esser mi parea non so in qual loco,

e veder donne andar per via disciolte,

qual lagrimando, e qual traendo guai,

che di tristizia saettavan foco.

Poi mi parve vedere appoco appoco

turbar lo sole ed apparir la stella,

e pianger egli ed ella;

cader gli augelli volando per l'äre,

e la terra tremare:

e uom m'apparve scolorito e fioco,

dicendomi: - Che fai? non sai novella?

Morta è la donna tua ch'era sì bella.

"Sì bella!" Questa è l'immagine. Gli basta chiamarla bella, chiamarla Beatrice. Incontra per via peregrini, essi soli indifferenti in tanto dolore:

Chè non piangete, quando voi passate

per lo suo mezzo la città dolente?

Se voi restate per volere udire,

certo lo core de' sospir mi dice

che lagrimando ne uscirete pui.

Ella ha perduta la sua Beatrice;

e le parole ch'uom di lei può dire,

hanno virtù di far piangere altrui.

La vita e la morte di Beatrice non è in lei, ma negli altri, in quello che fa sentire. L'immagine è immediatamente trasformata in sentimento. E questa immagine spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama il fantasma, esistente più nella immaginazione del lettore che nella espressione del poeta. Ciascuno si fa una Beatrice a sua maniera e secondo le forze del suo spirito. Siamo nel regno musicale dell'indefinito. Beatrice è un rêve, un sogno, una visione. La stessa sua morte è un sogno, o, come dice Dante, una fantasia, accompagnata di particolari patetici e drammatici, perché il poeta è vittima de' suoi fantasmi, e vive entro a quel mondo e ne sente e riflette tutte le impressioni. Beatrice muore, perché "esta vita noiosa"

non era degna di sì gentil cosa;

e tornata gloriosa nel cielo, diviene "spiritual bellezza grande" che spande per lo cielo luce d'amore e fa la maraviglia degli angioli. Questa bellezza spirituale, o, come dice Dante altrove, "luce intellettual, piena d'amore", è il mondo lirico realizzato nell'altra vita, dove il fantasma sparisce e la verità ti si porge nel suo splendore intellettuale, pura intelligenza, bellezza spirituale, scorporata. Il fantasma, quella mezza realtà a contorni vaghi e indecisi, più visibile nelle impressioni e ne' sentimenti che nelle immagini, non era che il presentimento, il velo, la forma preparatoria di questo regno del puro spirito; era l'ombra dello spirito. Ora la luce intellettuale dissipa ogni ombra: non hai niente più d'indeciso, niente più di corporeo: sei nel regno della filosofia, dove tutto è precisione e dogmatismo, tutto è posto con chiarezza, e discorso a modo degli scolastici. E poiché la filosofia non è potuta divenire virtù, poiché in terra essa è proscritta, rimane una realtà puramente scientifica e dottrinale. L'impressione ultima è che la terra è il regno delle ombre e de' fantasmi, la selva dell'ignoranza e del vizio, la tragedia che ha per sua inevitabile fine la morte e il dolore, e che la realtà, l'eterna e Divina Commedia, è nell'altro mondo.

Nè prima, nè poi fu immaginato un mondo lirico così vasto nel suo ordito, così profondo nella sua concezione, così coerente nelle sue parti, così armonico nelle sue forme, così personale e a un tempo così umano. Esso è l'accento lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni e nelle sue visioni, la voce dell'umanità a quel tempo. Il mistero di questo mondo religioso-filosofico è la Morte "gentile", come passaggio dall'ombra alla luce, dal fantasma alla realtà, dalla tragedia alla commedia, o, come dice Dante, alla pace. La morte è il principio della vita, è la trasfigurazione. Perciò il vero centro di questa lirica, la sua vera voce poetica è il sogno della morte di Beatrice, là dove sono in presenza questa vita e l'altra, e mentre il sole piange e la terra trema, gli angioli cantano "Osanna", e Beatrice par che dica: - Io sono in pace -. Ci è la terra co' suoi dolori e il cielo con le sue estasi, il mondo lirico nel momento misterioso della sua unità. Non credo che la lirica del medio evo abbia prodotto niente di simile a questo sogno di Dante, di una rara perfezione per chiarezza d'intuizione, per fusione di tinte, per profondità di sentimento, per correzione di condotta e di disegno, per semplicità e verità di espressione.

Ma se questo mondo logicamente è uno e concorde, esteticamente è scisso, perché non è insieme terra e cielo, ma è ora l'uno, ora l'altro, imperfetti ambidue. Il fantasma è spesso simile più ad un'allegoria che ad una realtà, ed è stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia. La realtà è pura scienza, in forma scolastica. Si può dire che quando in questo mondo comincia la realtà, allora appunto muore la poesia, s'inaridisce la fantasia e il sentimento. È un difetto organico di questo mondo, che resiste a tutti gli sforzi dell'arte, resiste a Dante.

D'altra parte, Dante vi si mostra più poeta che artista. Quel mondo è per lui cosa troppo seria, perché possa contemplarlo col sereno istinto dell'arte. Poco a lui importa che la superficie sia scabra, purché ci sia sotto qualche cosa che si mova. Perciò è sempre evidente, spesso arido e rozzo. L'Italia ha già il suo poeta; non ha ancora il suo artista.









IV - LA PROSA

Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla formazione del volgare, non minore opera vi diedero i bei favellatori, o favoleggiatori. "Favella" viene da "fabella", favoletta, e perciò le lingue moderne furon dette "favelle", lingue de' favoleggiatori. Costoro nelle corti e ne' castelli raccontavano novelle, come i rimatori poetavano d'Amore. Così gl'inizi della nostra lingua furono

versi d'amore e prose da romanzo.

Come i versi, così le prose aveano già tutto un repertorio venuto dal di fuori. I rimatori attingevano nel codice d'Amore; i novellatori o favellatori attingevano ne' romanzi della Tavola rotonda o di Carlomagno. Il cavaliere errante era il tipo convenzionale degli uni e degli altri.

Questa letteratura non produsse altro che traduzioni come sono i Conti di antichi cavalieri, la Tavola rotonda e i Reali di Francia: Tristano, Isotta, Lancillotto, il re Meliadus, il profeta Merlino, Carlomagno, Orlando erano gli eroi dell'immaginazione popolare. Oggi ancora i cantastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di fatti maravigliosi le geste di Orlando e di Rinaldo. Anche la storia romana prese questa forma. Un codice antico ha per titolo: Lucano tradotto in prosa, ed è la versione del Giulio Cesare, romanzo in versi rimati di Jacques de Forest. La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata con colori e particolari tolti alla vita cavalleresca. Cicerone, "mastro di rettorica" e "buono chierico", così comincia una sua aringa a Pompeo: "Li re e conti e baroni e l'altro popolo ti richieggono e pregano che tu non metta la cosa a indugio". E non è maraviglia che anche nelle cronache penetri questa vita cavalleresca. Si leggono non senza diletto i Diurnali, o come oggi si direbbe, giornali di Matteo Spinelli, la più antica cronaca italiana, non solo per la semplicità e naturalezza del racconto in un dialetto assai prossimo al volgare, ma per la vaghezza de' fattarelli, che pare un favellatore e non uno storico. Di maggior mole è la Storia di Firenze di Ricordano Malespini, che dagli inizi della città si stende sino al 1282. Quando narra fatti contemporanei, è testimonio veridico ed esatto, nè la sua fede guelfa lo induce ad alterare i fatti. Ma quando esce da' suoi tempi, ti trovi nell'infanzia della coltura. Anacronismi ed errori geografici sono accoppiati con la più grossolana credulità nelle favole più assurde, improntate di tutto il maraviglioso de' romanzi cavallereschi. Dice che la chiesa di san Pietro fu fondata a' tempi di Ottaviano, quando san Pietro e Cristo stesso non erano ancora nati; che la mattina di Pentecoste fu celebrata la messa nella chiesa della canonica di Fiesole al tempo di Catilina; che il tempio di san Giovanni in Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da "pisare" o "pesare", Lucca da "luce", e Pistoia da "pistolenzia"; narra gli amori di Catilina con la regina Belisea, moglie del re Fiorino, e le avventure di Teverina, figlia di Belisea, e pare una pagina tolta a qualche romanzo allora in voga.

In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e incerta, desinenze goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito: non ci è ancora l'"io", la personalità dello scrittore.

Come la poesia, così la prosa cavalleresca poco attecchì in Italia. Non solo non ci fu nessun romanzo originale, ma neppure alcuna imitazione. Tutto quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa aridità e indifferenza, che senti nel Malespini, anche quando narra fatti commoventissimi, come la morte di Manfredi, o di Bondelmonte. Come l'uomo inculto parla assai meglio che non scrive, è a presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con una vivacità d'immaginazione e di affetto, che non trovi ne' racconti e nelle cronache. Ci è una raccolta di novelle, detta il Novellino, che sembrano schizzi e appunti, anzi che vere narrazioni, simili a quegli argomenti che si danno a' giovinetti per esercizio di scrivere. Il libro fu detto "fiore del parlar gentile"; e veramente vi è tanta grazia e proprietà di dettato che stenti a crederlo di quel secolo, e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti più tardi. Ma se la lingua è assai più schietta e moderna che non è ne' Conti di antichi cavalieri e ne' romanzi di quel tempo, è in tutti la stessa aridità. Ci è il fatto ne' suoi punti essenziali, spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli danno colore, e senza le impressioni e i sentimenti che gli danno interesse. Pure, quando il fatto è semplice e breve, e non richiede arte, basta a conseguire l'effetto quella naturalezza e quel candore pieno di verità che è nel racconto. Eccone un esempio:

"Leggesi del re Currado, padre di Corradino, che quando era garzone, si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade. Quando lo re Currado fallava, li maestri che gli eran dati a guardia, non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui. E quei dicea: - Perché non battete me, ché mia è la colpa? - Diceano li maestri: - Perché tu sei nostro signore. Ma noi battiamo costoro per te: onde assai ti dee dolere, se tu hai gentil cuore, che altri porti pena delle tue colpe. - E perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per la pietà di coloro."

Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popolare tra noi, e non divenne un lavoro d'arte, la ragione è che una materia tanto poetica si mostrò quando lingua e arte erano ancora nell'infanzia, e rimasa fuori della vita e dei costumi riuscì un frivolo passatempo, come fu della poesia cavalleresca. Trattata da illetterati, questa materia non potè svilupparsi e formarsi, sopravvenuto in breve tempo il risorgimento de' classici e il rifiorire delle scienze, che trasse a sè l'animo delle classi colte. Quantunque "chierico" significasse ancora uomo dotto, e da' pergami e dalle cattedre si parlasse ancora latino, ed in latino si scrivessero le opere scientifiche, già il laicato usciva dalle università vigoroso ed istrutto, con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella sua forza. Se il chierico tendeva a restringere in pochi la dottrina e farne un privilegio della sua milizia, lo spirito laicale tendeva a diffonderla, a volgarizzarla, a farla patrimonio comune. La libertà municipale, aprendo la vita pubblica a tutte le classi, costituiva in modo stabile un laicato colto e operoso, a cui non bastava più il latino, e che, formato nelle scuole, superbo della sua scienza, in quotidiana comunione con le altre classi, aveva già un complesso d'idee comuni, che costituivano la base della coltura. Erano nuove forze che entravano in azione e davano un indirizzo proprio alla vita italiana. A quella gente quei romanzi e quei racconti doveano sembrare trastullo di oziosi, spasso di plebe. Le idee religiose, così come venivano bandite dal pergamo, non doveano aver molta grazia a' loro occhi; quella semplicità e rozzezza di esposizione dovea poco gradire a quegli uomini, che tutto codificavano e sillogizzavano. Certo non fu perciò estinta la razza de' novellatori e de' predicatori; ma lo spirito della classe colta se ne allontanò, e i Conti de' cavalieri e le Vite de' santi rimasero occupazione di uomini semplici e inculti, senza eco e senza sviluppo. La società mirava a divulgare la scienza, a diffondere le utili cognizioni, a far sua tutta la cultura passata, profana e sacra. I suoi eroi furono Virgilio, Ovidio, Livio, Cicerone, Aristotile, Platone, Galeno, Giustiniano, Boezio, santo Agostino e san Tommaso. Il volgare divenne l'istrumento naturale di questa coltura. I poeti bandivano la scienza in verso; i prosatori traslatavano dal latino gli scrittori classici, i moralisti e i filosofi. Era un movimento di erudizione e di assimilazione dell'antichità, che durò parecchi secoli, e che ebbe una grande azione sulla nostra letteratura. La materia, a cui più volentieri si volgevano i traduttori, era l'etica e la rettorica, l'arte del ben fare e l'arte del ben dire. Una delle più antiche versioni è il Libro di Cato o Volgarizzamento del Libro de' costumi, opera scritta in distici latini e divisa in quattro libri. L'opera ebbe tanta voga, che se ne fecero tre versioni, ed è spesso citata dagli scrittori. Nè è maraviglia, perché ivi la morale è nella sua forma più popolana, essendo ciascuna regola del ben vivere chiusa in un distico, a guisa di motto o proverbio o sentenza, facile a tenere in memoria. Ecco un esempio:

Virtutem primam esse puto, compescere linguam:

proximus ille Deo est Qui scit ratione tacere.

Ed è tradotto egregiamente così:

Costringere la lingua credo che sia la prima vertude:

quelli è prossimo di Dio, che sa tacere a ragione.

Esercizio utilissimo a' giovani sarebbe il raffronto delle tre versioni, che ti mostra la lingua ne' diversi stati della sua formazione. La terza versione, pubblicata dal Manni, ha per compagna l'Etica di Aristotile e la Rettorica di Tullio. Questa Rettorica di Tullio è il Fiore di rettorica, attribuito a frate Guidotto da Bologna, e da altri con più verisimiglianza a Bono Giamboni, e che comincia così: "Qui comincia la Rettorica nuova di Tullio, traslatata da grammatica in volgare per frate Guidotto da Bologna". Che importanza avesse la rettorica, e quali miracoli potea produrre, si vede da queste parole del traduttore:

"Fu uno nobile e vertudioso uomo, cittadino nato di Capova del regno di Puglia, il quale era fatto abitante della nobile città di Roma, che avea nome Marco Tullio Cicerone, lo quale fu maestro e trovatore della grande scienzia di rettorica, la quale avanza tutte le altre scienzie per la bisogna di tutto giorno parlare nelle valenti cose, siccome in far leggi e piati civili e cherminali, e nelle cose cittadine, siccome in fare battaglie, ed ordinare schiere, e confortare cavalieri nelle vicende degl'imperii, regni e principati, e governare popoli e regni e cittadi e ville, e strane e diverse genti, come conversano nel gran cerchio del mappamondo della terra."

Il libro è dedicato a re Manfredi, il quale vi potrà avere "sufficiente e adorno ammaestramento a dire in piuvico e in privato". Accanto a Cicerone comparisce il grande poeta Virgilio, "il quale Virgilio si trasse tutto il costrutto dello intendimento della rettorica, e ne fece chiara dimostranza". Il frate, cercando le "magne virtudi" di Cicerone, aggiunge: "Sì mi mosse talento di volere alquanti membri del Fiore di rettorica volgarizzare di latino in nostra lingua, siccome appartiene allo mestiere de' laici, volgarmente". Onde pare che il tradurre volgarmente, in volgare, era mestiere dei laici, scrivendo i chierici in latino. Queste citazioni sono il ritratto del tempo. Ci si vede la grande impressione che facea su quelle menti Virgilio e Cicerone, "d'arme maraviglioso cavaliere, franco di coraggio, armato di grande senno, fornito di scienzia e di discrezione, ritrovatore di tutte le cose". E ci si vede pure la gran fede nei miracoli della scienza, come se a vivere con buoni costumi e a ben dire in pubblico e in privato bastasse imparare le regole dell'etica e della rettorica. Nè si recavano in volgare le opere solo dell'antichità, ma anche le contemporanee scritte in latino. Cito fra gli altri il volgarizzamento fatto da Soffredi del Grazia, notaio pistoiese, de' Trattati di morale, dottissima opera di Albertano da Brescia, scritta in prigione. Il primo trattato, Della dilezione di Dio e del prossimo e della forma della vita onesta, è composto l'anno 1238. L'opera levò tal grido, che fu tradotta in francese e in inglese, e veramente ci è lì dentro raccolta tutta la dottrina del tempo intorno all'onesto vivere, sacra e profana. L'impulso fu tale che gli uomini più chiari si volsero a tradurre o compendiare grammatiche, rettoriche, trattati di morale, di fisica, di medicina. Ristoro di Arezzo scrivea sulla Composizione della terra; Cavalcanti scrivea una grammatica e una rettorica; ser Brunetto traduceva il trattato De inventione di Cicerone e parecchie orazioni di Sallustio e di Livio, e sotto nome di Fiore di filosofi e di molti savi raccoglieva i detti e i fatti degli antichi filosofi, Pitagora, Democrito, Socrate, Epicuro, Teofrasto, e di uomini illustri, come Papirio, Catone. Ecco i "fiori" di Plato:

"Plato fue grandissimo savio e cortese, in parole, e disse queste sentenzie:

In amistade, nè in fede non ricevere uomo folle: più leggermente si passa l'odio de' folli e de' malvagi, che la loro compagnia.

A neuno uomo ti fare troppo compagno. L'uomo è cosa troppo singolare: non puote sofferire suo pare, de' suoi maggiori hae invidia, de' suoi minori hae disdegno, a' suoi iguali non leggeremente s'accorda.

Quelli sono pessimi e maliziosi nimici, che sono nella fronte allegri e nel cuore tristi."

Secondo la rettorica di quel tempo si diceva "fiore" quel raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico come un bel mazzetto. E si diceva anche "giardino", come spiegava Bono Giamboni nel suo Giardino di consolazione, versione del latino: "e chiamasi questo Giardino di consolazione, imperò che siccome nel giardino altri si consola e trova molti fiori e frutti, così in questa opera si trovano molti e begli detti, li quali l'anima del divoto leggitore indolcirà e consolerà". In effetti questo bel libro, dov'è molta semplicità e grazia di dettato, è una descrizione de' vizi e delle virtù, con sopra ciascuna materia i detti de' savi e de' santi Padri, tanto che si può veramente dire dell'autore: "il più bel fior ne colse". Ecco il capitolo Dell'Ebrietade:

"Ebrietade, secondo che dice santo Agostino, è vile sepoltura della ragione e furore della mente". Anche dice: "La ebrietà è lusinghiere demonio, dolce veleno, soave peccato. Anche dice: la ebrietà molti ne ha guasti, toglie il senno, fa venire infermitadi, ingrossa lo ingegno, accende alla lussuria, mai non tiene segreto, induce a male parole." Santo Basilio dice: "l'ebro, quando pensa bere, sì è beuto: come lo pesce che con grande desiderio inghiottisce l'esca nella sua gola e non sente l'amo; così l'ebro, bevendo il vino, riceve in sè nemico senza ragione." E santo Paolo dice: "non t'inebriare di vino, imperò che di vino esce lussuria."

Nè solo "fiore" o "giardino", ma si diceva pure "tesoro" o "convito", quasi mostra di ricche pietre preziose, o di elettissime vivande. Brunetto, che scrisse il Fiore, avea già scritto il Tesoro, "in romanzo o lingua francesca", come "più dilettevole e più comune che tutti gli altri linguaggi", e voltato poi in volgare da Bono Giamboni. Il Tesoro è il Cosmos di quel tempo, l'universalità della scienza come s'insegnava nelle scuole, la somma o il compendio del sapere, e per dirla con le parole di Brunetto, "un'arnia di mèle tratta di diversi fiori", un "estratto di tutt'i membri di filosofia in una somma brevemente". Prende capo dalla filosofia, siccome "radice di cui crescono tutte le scienze", ed è descrizione di Dio, dell'uomo, della natura. Segue l'etica, o filosofia pratica, e poi la rettorica, che ha come appendice la politica, o l'arte di ben governare gli stati. È il disegno di una prima facoltà universitaria, che prepara con questi studi i giovani alle scienze speciali. Questa vasta compilazione, di cui non era esempio, parve una maraviglia. Ma più importanti erano i trattati speciali, dove gli scrittori mostravano qualche originalità, come furono i tre trattati di Albertano e il famoso trattato De regimine principum di Egidio Colonna, dottissimo patrizio napolitano, volgarizzato da un toscano.

Il luogo che teneva la fede, venne occupato dalla filosofia. Non che la filosofia negasse la fede, anzi era proprio di quel tempo aver fede in tutto quello che era scritto; ma sotto quella forma s'affermava la società colta, e si distingueva da' semplici e dagl'ignoranti. Il luogo comune di tutte le invenzioni era l'eterno Giobbe l'uomo colpito dall'avversità, che maledice prima alla vita e trova poi rimedio e consolazione nella filosofia, ovvero nello studio della scienza, nella visione delle opere divine e umane. Questo spiega la grande popolarità del libro di Boezio Della consolazione, fondato appunto su questa base, dove la filosofia è rappresentata "in sembianza di donna, in tale abito e in sì maravigliosa potenzia, che cresceva quando le piaceva, tanto che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle e sopra al cielo, e poggiava a monte e a valle". Tale è pure la visione di ser Brunetto Latini nel Tesoretto, ch'è visione delle cose umane "secondo il corso stabilito a ciascheduna":

Io le vidi ubbidire,

finire e incominciare,

morire e 'ngenerare.

La stessa base ha il libro, Introduzione alle virtù, di Bono Giamboni. È un giovine, "caduto di buono luogo in malvagio stato", che narra di sè in questo modo:

"Seguitando il lamento che fece Giobbe, cominciai a maledire l'ora e il die che io nacqui e venn'in questa misera vita, e il cibo che in questo mondo m'avea nutricato e governato. E pienamente luttando con guai e gran sospiri, i quali venieno della profondità del mio petto, fra me medesimo dissi: - Dio onnipotente, perché mi facesti tu vivere in questo misero mondo, acciocch'io patissi cotanti dolori e portassi cotante fatiche e sostenessi cotante pene? Perché non mi uccidesti nel ventre della madre mia, o incontanente che nacqui non mi desti tu la morte? Facestilo tu per dare di me esempio alle genti, che neuna miseria d'uomo potesse nel mondo più montare? - Lamentandomi duramente nella profondità di un'oscura notte nel modo che avete udito di sopra, e dirottamente piangendo m'apparve di sopra al capo una figura, che disse: - Figliuolo mio, forte mi maraviglio, che essendo tu uomo, fai reggimenti bestiali, perciocché stai sempre col capo chinato, e guardi le oscure cose della terra, laonde sei infermato e caduto in pericolosa malattia. Ma se tu dirizzassi il capo e guardassi il cielo e le dilettevoli cose del cielo considerassi, come dee fare uomo naturalmente, e di ogni tua malattia saresti purgato, e vedresti la malizia de' tuoi reggimenti, e sarestine dolente. Or non ti ricorda di quello che disse Boezio: che, conciossiacosaché tutti gli altri animali guardino la terra, e seguitino le cose terrene per natura, solo all'uomo è dato a guardare il cielo, e le celestiali cose contemplare e vedere? - Quando la boce ebbe parlato... , si riposò una pezza, aspettando se alcuna cosa rispondessi o dicessi; e vedendo che stava mutolo, e di favellare neuno sembiante facea, si rappressò verso me, e prese i ghironi del suo vestimento, e forbimmi gli occhi, i quali erano di molte lacrime gravati per duri pianti ch'io avea fatto... Allora apersi gli occhi e guardaimi dintorno, e vidi appresso di me una figura bellissima e piacente, quanto più innanzi fue possibile alla natura di fare. E della detta figura nascea una luce tanto grande e profonda, che abbagliava gli occhi di coloro che guardare la volieno: sicché poche persone la poteano fermamente mirare. E della detta luce nasceano sette grandi e maravigliosi splendori che alluminavano tutto il mondo. E io vedendo la detta figura così bella e lucente, avvegna che avessi dallo incominciamento paura, m'assicurai tostamente, pensando che cosa rea non potea così chiara luce generare. Cominciai a guardar la figura tanto fermamente, quanto la debolezza del mio viso poteva sofferire. E quando l'ebbi assai mirata, conobbi certamente ch'era la Filosofia, nelle cui magioni avea lungamente dimorato. Allora incominciai a favellare e dissi: - Maestra delle virtudi, che vai tu facendo in tanta profondità di notte per le magioni de' servi tuoi? - "

Seguono discorsi tra questo servo della Filosofia e la Filosofia, il cui costrutto è questo: che la vita terrestre è vita di prova; e la vera vita è in cielo, se però "porti in pace le pene e le tribulazioni di questo mondo, chi vuole essere verace figliuolo di Dio, e non bastardo, pensando, che s'egli sarà compagno di Dio nelle passioni, sarà suo compagno nelle consolazioni". La Filosofia finisce con questo lamento:

"O umana generazione, quanto se' piena di vanagloria, e hai gli occhi della mente, e non vedi! Tu ti rallegri delle ricchezze e della gloria del mondo, e di compiere i desidèri della carne, che possono bastare quasi per uno momento di tempo, perché poco basta la vita dell'uomo: e queste sono veracemente la morte tua, perché meritano nell'altro mondo molte pene eternali. E della povertà e delle tribulazioni del mondo ti turbi e lamenti, che poco tempo possono durare: e queste sono veracemente la tua vita, perché se si comportano in pace, meritano nell'altro mondo molta gloria perpetuale... Disse uno savio: - Quello che ne diletta nel mondo è cosa di momento, e quello che ne tormenta nell'altro, durerae mai sempre."

E segue, citando i detti dell'Apostolo, di san Pietro e di Salomone.

Questo era il tèma comune delle prediche, salvo che qui il predicatore è la Filosofia, che si fa interprete di Dio, e cita Salomone e san Pietro e i santi Padri. Questo concetto è l'idea fondamentale della "leggenda", una storia fantastica, la cui base è il peccatore condannato o redento. In queste leggende Dio e il demonio sono gli attori principali: Dio che co' suoi angioli e le sue virtù tira l'anima alla rinunzia de' beni terrestri e alla contemplazione delle cose celesti, e il demonio che la tiene stretta e affezionata alla terra. L'uomo, mosso dalle naturali inclinazioni, vende l'anima al demonio pur d'essere felice in terra, e lo spettacolo finisce nelle tenebre e nel fuoco dell'inferno. Ma spesso la tragedia si solve nella commedia, cioè nel trionfo e nel gaudio dell'anima, quando, aiutata dalla divina grazia, sa riscattarsi dal demonio e acquistare il paradiso. Questa lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi, che nella Introduzione alle virtù del Giamboni la Filosofia mostra al suo servo, perché in quella immagine fortifichi la sua fede. Questa è pure la base della leggenda del dottore Fausto che vendè l'anima al diavolo, leggenda così popolare al medio evo, e resa immortale da Goethe. E questo è anche il concetto del mondo lirico dantesco, dove Beatrice diviene la Filosofia, e le gioie e i dolori dell'amore terrestre svaniscono nella contemplazione intellettuale della Scienza.

Così il secolo decimoterzo si chiude con uno stesso concetto, esposto in prosa e in poesia. Brunetto, Giamboni e Dante s'incontrano nella stessa idea, o per dir meglio, era questa l'idea comune, elaborata in tutto il medio evo, e che sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e distinta, consapevole di sè. Ma in prosa non trovò quell'adeguata espressione che seppe dare Dante al suo mondo lirico. Mancò la leggenda, com'era mancata la novella, e mancò il romanzo religioso o spirituale, com'era mancato il romanzo cavalleresco. Lo scrittore è più intento a raccogliere che a produrre. Fra tanti "Fiori" e "Giardini" e "Tesori" manca l'albero della vita, l'anima impressionata e fatta attiva che produca. Ci è un lavoro di traduzione e di compilazione, non ci è ancora un lavoro di assimilazione, e tanto meno di produzione. Le ricchezze son tante, che tutta l'attività dello spirito è consumata a raccoglierle, anzi che a crearne di nuove. Senti una stanchezza a leggere queste traduzioni o compilazioni, dove niente è affermato senza un "ipse dixit", o piuttosto "ipsi dixerunt", tante e così accumulate sono le citazioni. E non ci è tregua, non digressioni, non varietà in questi "giardini", dove hai innanzi un cicerone insopportabile, sempre con la stessa voce e lo stesso tuono. Nessun movimento d'immaginazione o di affetto; nessun vestigio di narrazione o descrizione; l'esposizione didattica, il trattato, riempie l'intelletto, e t'uccide l'anima. L'espressione più chiara del secolo furono i dottissimi Brunetto Latini e Bono Giamboni, traduttori e compilatori infaticabili. Basti dire che il Giamboni, oltre le opere avanti accennate, ha tradotto pure le Storie di Paolo Orosio, l'Arte della guerra di Flavio Vegezio e la Forma di onesta vita di Martino Dumense.

La gloria di questo secolo, cominciatore di civiltà, è di aver preparato il secolo appresso, lasciandogli in eredità una ricca messe di cognizioni fatte volgari, e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica. Quel tradurre fu un esercizio utilissimo, che diede forma e stabilità alla nuova lingua, e quella pieghevolezza ed evidenza che viene dalla necessità di rendere con esattezza il pensiero altrui. Principe de' traduttori fu Bono Giamboni, così terso e fresco che molte pagine con lievi correzioni si direbbero scritte oggi, soprattutto dove sono descrizioni di animali o di virtù e di vizi.

In queste prose didattiche non ci è di arte neppure intenzione. Ai contemporanei di Cino, di Cavalcanti, di Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare assai povera cosa. E si venne confermando l'opinione che il volgare non fosse buono che a dire di amore, e che le materie gravi si dovessero trattare in latino, come costumavano gli scrittori di polso.













V - I MISTERI E LE VISIONI

Al punto a cui siamo giunti, ci si porge chiara l'immagine delsecolo decimoterzo. Due sono le fonti di quella letteratura primitiva: la cavalleria e le sacre scritture. L'eroe della cavalleria, il cavaliere, è l'uomo che si sforza di realizzare in terra la verità e la giustizia, di cui è immagine la donna, suo culto e amore. La sua vita è attiva, piena di avventure e di fatti maravigliosi. Senti la sua presenza nella più antica lirica, nelle novelle, ne' romanzi e nelle cronache. Ma la cavalleria, venutaci di fuori, con gli stranieri che occupavano il nostro suolo, non prese radice, non si sviluppò, non produsse alcuna opera originale, rimase stazionaria. Perdette il suo carattere serio e quasi religioso e restò un puro gioco d'immaginazione, che si mescola come colorito e accessorio in tutte le storie, sacre e profane. Di ben altra efficacia era l'idea religiosa, penetrata ne' sentimenti e ne' costumi e nelle istituzioni, compagna dell'uomo in tutti gli stati della vita. L'eroe cristiano è chiamato pure "cavaliere", il "cavaliere di Cristo"; ma è un eroe contemplativo, il cui tipo è il frate, il romito, il santo. Come il cavaliere errante, anche lui rinunzia ed ha a vile i beni terrestri, ma la vita dell'uno è militante, quella dell'altro è contemplante: ci è in fondo la stessa idea, di cui l'uno è il soldato, l'altro è il sacerdote. Certo, questi due tipi entrano spesso l'uno nell'altro, e il frate diviene il templario o il cavaliere di Malta, soldato della fede, e il cavaliere errante finisce romito e penitente. Ma il cavaliere, gittandosi nelle più strane avventure, dimentica e fa dimenticare il cielo, attirata l'attenzione dal maraviglioso delle opere, sì che destano uguale curiosità e interesse le geste de' cristiani e de' saracini, e la rappresentazione rimane terrena. L'altro al contrario passando la vita ne' digiuni, nella povertà, nella castità e nell'orazione, ci tien sempre viva innanzi l'immagine dell'altro mondo; e perciò questa vita contemplativa è schiettamente religiosa; anzi è ivi la perfezione, ivi il più alto ideale. La passione dell'anima è l'esser legata al corpo, alla carne, e la sua beatitudine o santificazione è sciogliersi da quella e star con Cristo: al che è via la contemplazione e la preghiera. Nelle tre allegorie sull'anima pubblicate dal Palermo è detto: "Ogni bene e virtù, qualunque vogli, e buono in sè medesimo, ma la preghiera solamente trae a sè tutte le altre virtù". In queste allegorie compariscono tre esseri, che sono i tre gradi della santificazione: "Umano", "Spoglia" e "Rinnova". Dapprima l'anima, impacciata dal terrestre, dall'"Umano", non può scorgere il vero che sotto figura, nel sensibile. Il secondo essere, "Spoglia", è la virtù che monda e purga l'anima dagli affetti terrestri, insino a che viene "Rinnova", luce mentale, che "rinnova l'anima in tutto e mostra la verità senz'ombra e senza figura". Questi tre gradi di santificazione comprendono tutta la vita del cavaliere cristiano. Inviluppato nel senso e nella carne, non vede che un barlume del vero, e non giunge all'ultima luce mentale, all'ultimo grado, se non purificandosi e mondandosi della parte terrestre. Anch'egli ha le sue battaglie, ma col demonio e con la carne, ch'egli macera e mortifica d'ogni maniera, e le sue armi sono la contemplazione e la preghiera. Il maraviglioso di questa vita non è solo ne' miracoli, ma in quella forza di volontà che trae l'uomo a vincere tutti gli affetti e le inclinazioni naturali, com'è in santo Alessio, il tipo più commovente di questi cavalieri di Cristo. La creazione del mondo, il peccato originale, le profezie, la venuta di Cristo, la sua passione, morte e trasfigurazione, l'anticristo e il giudizio universale sono l'epopea, il fondo storico a cui si annodano tante vite di santi. E questa storia dell'umanità era tutt'i giorni innanzi al popolo, nella predica, nella confessione, nella messa, nelle feste. La messa non è altro che una rappresentazione simbolica di questa storia, un vero dramma senza che ce ne sia l'intenzione, rappresentato dal prete e da' fedeli. Ogni atto che fa il prete, è pieno di significato, è rappresentazione mimica. La prima parte della messa è epica o narrativa; è il Verbum Dei, l'esposizione che comprende le profezie e il Vangelo, e finisce con la predica. La seconda parte è drammatica, è l'azione, il Sacrificium, l'adempimento delle profezie. La terza parte è lirica, come nelle risposte de' fedeli (il coro) al prete, o quando due cori si alternano nel canto, e negl'inni e nelle preghiere: ciò che ha luogo principalmente nella messa cantata. Aggiungi le immagini de' santi e i fatti dell'antico e del nuovo Testamento in quelle cappelle, in quelle finestre variopinte, in quelle cupole, e quelle grandi ombre, e quelle moli restringentisi sempre più e terminate da croci slanciate verso il cielo, ed avrai l'immagine e l'effetto musicale di questo stacco dalla terra, di questo volo dell'anima a Dio. Dopo l'evangelo, il predicatore talora, per fare più effetto sull'immaginazione, esponeva la sua storia sotto forma di rappresentazione, come si fa in parte anche oggi ne' quaresimali. I monaci e i preti rappresentavano il fatto, e il predicatore aggiungeva le sue spiegazioni e considerazioni. Era una rappresentazione liturgica, cioè legata al culto, parte del culto, detta "divozione" o "mistero". Di tal natura sono due divozioni, che si rappresentavano il giovedì e il venerdì santo, e sono piuttosto due atti di una sola rappresentazione che due rappresentazioni distinte. La prima comincia col banchetto che Cristo ebbe in casa di Lazzaro sei giorni avanti Pasqua, e che qui è il giovedì santo. Cristo viene da Gerusalemme, Maria con Maddalena e Marta gli va incontro. Maria prega il figlio di non tornare a Gerusalemme, perché vogliono la sua morte. Cristo risponde dover ubbidire al Padre: pur si conforti, che niente farà che non lo dica a lei. Alla fine del banchetto Cristo scopre a Maddalena che dee ire a Gerusalemme, dove patirà il supplizio della croce, e le raccomanda la madre. Cristo esce. Sopraggiunge Maria, che ha visto il figlio turbato, e la prega a svelarle quello che il figlio le ha detto. Maddalena tace. E la madre va a Cristo tutta in lacrime, e dice:

Dimilo, figlio, dimilo a mi,

perché stai tanto afannato?

Amara mi, piena de suspiri,

perché a mi lo hai celato?

De gran dolore se spezzano le vene,

e de doglia, figlio, me esse il fiato,

ché t'amo, o figlio, con perfecto core,

dimilo a mi, o dolce Segnore.

Cristo dice che pel riscatto del mondo dee ire a morte, e Maria sviene. Tornata in sè e lamentandosi, raccomanda il figlio a Giuda, che risponde in modo equivoco: - So quello che ho a fare. - Poi si volge a Pietro, che promette difendere il figlio contro tutto il mondo. Giunti a una porta della città, Maria non vuol separarsi dal figlio; ma quando non lo vede più e sa che per un'altra porta è entrato in Gerusalemme, fa pietosi lamenti innanzi al popolo:

O figlio mio, tanto amoroso,

o figlio mio, due se' tu andato?

O figlio mio, tuto gracioso,

per quale porta se' tu entrato?

O figlio mio, assai deletoso,

tu sei partito tanto sconsolato!

Ditime, donne, per amor de Dio,

dov'è andato lo figlio mio?

Segue il racconto secondo la Bibbia. Le parole di Cristo, tolte al Vangelo, sono dette in latino. E la "divozione" finisce con la prigionia di Cristo.

La "divozione" del venerdì santo racconta la passione e la morte di Cristo. Il predicatore interrompe la rappresentazione con le sue spiegazioni, e fa cenno quando si ha a continuare. Maria vi rappresenta una gran parte. Mentre Cristo prega pe' suoi nemici, ella dice alla croce:

Inclina li toi rami, o croce alta,

dona riposo a lo tuo Creatore;

lo corpo precioso ià se spianta;

lasa la tua forza e lo tuo vigore.

Cristo la raccomanda a Giovanni, che inginocchiandosi e baciandole i piedi cerca racconsolarla. Ma essa abbraccia la croce e si lamenta:

O figlio mio, figlio amoroso,

come mi lasi sconsolata!

O figlio mio tanto precioso,

come rimango trista, adolorata!

Lo tuo capo è tutto spinoso,

e la tua faza di sangue bagnata!

altri che ti non voglio per figlio,

o dolce fiato e amoroso giglio.

Quando Cristo muore, Maddalena gli sta a' piedi, al capo Giovanni, Maria nel mezzo. E bacia il corpo di Cristo, gli occhi, le guance, la bocca, i fianchi, le mani "con le quali benediva il mondo", i piedi su' quali "Maddalena sparse tante lacrime".

Queste rappresentazioni erano antichissime, e si scrivevano in latino, come il Ludus paschalis, rappresentazione di Pasqua, dove è messo in azione l'anticristo. Le due "divozioni" avanti discorse non sono probabilmente che versioni o imitazioni di opere più antiche, rimase nella tradizione. Tale era pure la rappresentazione del Nostro Signore Gesù Cristo, che ebbe luogo a Padova nel 1243, e il Ludus Christi, una trilogia rappresentata dal clero in Cividale negli ultimi due giorni di maggio il 1298. Nella Pentecoste e ne' tre seguenti giorni il capitolo di questa città, in presenza del vescovo e del patriarca di Aquileia, diede questa serie di rappresentazioni: la creazione di Adamo ed Eva, la profezia o l'annunzio, la nascita, morte e risurrezione di Cristo, la discesa dello Spirito santo, l'Anticristo, e la venuta di Cristo nel giudizio universale. Era tutta l'epopea biblica, fatta evidente e sensibile dalla musica, dal canto, dalle scene, dalla mimica e dalla parola. Tale era pure la Passione, rappresentata a Roma nel Coliseo il venerdì santo, dalla Compagnia del gonfalone nel 1264.

Queste rappresentazioni, di cui i preti erano attori e attrici, aveano tutto il carattere di solennità o feste o cerimonie religiose. Il diavolo vi ha pure la sua parte di tentatore, ma parla in modo serio e semplice, secondo la sua natura, e non ha niente di grottesco e di ridicolo. Chiuse nel recinto delle chiese, de' conventi e delle curie vescovili, rimangono tradizionali e immobili, senza sviluppo artistico, come anche oggi si vedon in parte nelle feste del contado.

La moralità di queste rappresentazioni era che il fine dell'uomo è nell'altra vita, o come si diceva, è la salvazione dell'anima; che per conseguire questo fine si ha a imitare Cristo, soffrire in questo mondo per godere nell'altro. Perciò l'ideale, l'eroico o, come si diceva, la "perfezione della vita" era il dispregio de' beni di questo mondo, la resistenza a tutte le inclinazioni naturali e il vivere in ispirito nell'altro mondo con la contemplazione e la preghiera. Questa è la vita de' santi, della quale si dava anche rappresentazione a' fedeli. E tra le più antiche è una ancora inedita, che ha per titolo: D'uno monaco che andò a servizio di Dio, probabilmente recitata a monaci da monaci in un convento. L'eroe è questo monaco, un giovinetto che resiste alle lacrime della madre, alle querele del padre, alle tentazioni del compare, e si rende frate nel deserto, dove è accolto come figlio da un romito. Ma ivi prove più dure l'attendono. Mentre egli va a raccogliere per il pasto radici, frutta, castagne e noci, il romito prega, e mosso da curiosità chiede a Dio qual luogo spetti al suo novizio in paradiso, e un angelo risponde che sarà dannato. Non perciò della notizia si turba il giovinetto, anzi risponde tranquillo che continuerà ad amare e servire Dio. Invano il demonio lo tenta, dicendogli che "ha guastato l'amor naturale", e che il meglio sarà tornare in casa del padre, ché forse Dio gli avrà misericordia. Il giovinetto con gli scongiuri fuga il demonio, e rimane fermo nella sua risoluzione. Allora l'angiolo annunzia al romito ch'egli è salvo. E il monaco e il romito intuonano il Te Deum o una lauda. Nell'epilogo o commiato sono esortati gli spettatori a castigare la carne e a pensare alla vita eterna. Anima della rappresentazione è l' invitta fede del giovane monaco, che la preghiera e la contemplazione è la più sicura guardia contro il peccato e la tentazione della carne, e che si giunge alla santificazione con rinunziare al mondo e vivere con lo spirito in Dio. Questo concetto è espresso in una forma scolastica nel canto del monaco, di cui ecco alcuni brani:

L'anima sensitiva che ss'inchina

nel mondo a tutto quel che lla diletta,

apprezza poco la legge divina...

L'alma piena di fede e semplicetta

spesso si leva pura a contemplare

quel ben che veramente la diletta.

e quando a quel più intenta esser le pare,

allor dal grave corpo è sì constretta,

che giuso afflitta le convien tornare,

e umile e isdegnosa piange e dice:

- Deh! Chi mi sturba il mio esser felice? -

Quell'anima gentile è sempre viva,

e vive Iddio in lei per unione... ,

e tutta sta nella contemplativa,

e gode tutta; e s'ella ha passione,

è per esser legata al corpo tristo,

dal qual desia disciòrsi e star con Cristo.

Ci è una rappresentazione, intitolata Commedia dell'anima, che è una storia ideale della vita de' santi, una specie di logica, dove sono le idee fondamentali della santificazione, l'ossatura e lo scheletro di tutte le vite de' santi. L'anima esce pura dalle mani di Dio e a sua immagine. Dio la contempla con amore, dicendo:

Quando io risguardo quella creatura,

che all'immagine mia io ho formata,

e ch'io la veggo immaculata e pura

starmi dinanzi, la m'è accetta e grata:

ma l'ha bisogno d'una buona cura,

la quale a custodirla sia parata;

e perché ha in sè l'immagine d'Iddio,

vo' che la guardi un angel santo e pio.

Ma il demonio, invidioso che "sì vil cosa abbia a fruire quel regno, del qual esso è privato", si apparecchia a darle battaglia. L'angelo custode conforta l'anima, e le presenta la Memoria, l'Intelletto e la Volontà: le sue "potenzie". L'Intelletto parla dopo la Memoria e dice:

Io son di te la seconda potenzia

e il nome mio è detto Intelligenzia.

La mia quiete si sta nel Verbo eterno,

e quivi sempre debb'esser saziato:

però che in questo esilio io non discerno

com'io sarò in quel regno beato.

Allora io sarò sazio in sempiterno,

e quivi il mio obbietto arò trovato,

fermandomi in quel razzo rilucente,

che senza quello inquieta è la mia mente.

Lièvati sopra te tutta in fervore,

e guarda un po' del ciel quell'ornamento:

vedra'lo circondato di splendore;

poi pensa, anima mia, quel che v'è drento.

Lascia un po' star le cose esteriore,

se vuoi aver di quell'intendimento:

per questo i santi tutti innamorati

il mondo disprezzorno, pompe e stati.

E la Volontà dice:

Io son la Volontà che ho a fruire

quel ben c'ha dichiarato l'Intelletto,

e in quel fermando tutto il mio desire,

perché creata sono a quest'effetto... ,

e perché l'occhio corporal non vede,

credendo ho da seguir con pura fede.

L'Intelletto dice alla Volontà:

A te s'appartien sol deliberare

di far quel che ti è mostro fedelmente;

l'ufizio tuo è sempremai d'amare

ed unirti con Dio perfettamente.

E la Volontà risponde:

Nella tua spera i' m'ho sempre a guardare,

benché la mostri un po' con pura mente;

quand'io sarò nella gloria beata,

ciascuna cosa mi fie dichiarata.

L'anima confortata alza la preghiera a Dio, e l'angelo custode aggiunge:

Dàgli, Signore, un'ardente fiammella,

che la difenda da drago feroce:

tu sai che l'è nel corpo incarcerata,

e non può a te senza te esser grata.

Cioè a dire, non bastano le tre potenzie naturali, Memoria, Intelligenzia, Volontà, perché l'anima piaccia al Signore; ci vuole anche la sua grazia, l'ardente fiammella che dee cacciare il drago, il demonio. E Dio manda ad assisterla le virtù teologiche, Fede vestita di colore celeste, con una croce nella mano destra e nella sinistra un calice e suvvi la patena; Speranza vestita di verde, con gli occhi fissi al cielo e le mani giunte, Carità vestita di rosso, con un parvolino per mano. Intanto il demonio chiama l'Eresia, la Disperazione, la Sensualità e tutte le sue forze capitanate dall'Odio. Le tre virtù intorniano l'anima. La Fede dice dell'esser suo, e san Giovanni Crisostomo celebra la sua potenza. Ma l'Infedeltà con acri parole la rampogna:

È vien da levità chi crede presto.

Tu ne sei ita quasi che per terra,

e puossi dir che la fede è mancata;

uomini grandi e dotti ti fan guerra,

chi t'esaltò, or t'ha perseguitata...

Va' nel Levante e in tutto l'Occidente,

e guarda di noi dua chi ha più gente.

Allora la Speranza viene in soccorso:

Leva su gli occhi alla città superna,

ch'è fabbricata senz'ingegno umano.

Ma l'anima teme, pensando la sua debolezza:

Come io digiuno un dì, i' son sì bianca

che par che un curandaio m'abbi imbiancato

io mi stare' a dormir sur una panca

e il corpo vuole un letto sprimacciato.

La Speranza le pone avanti l'esempio de' santi, e soprattutto di santo Agostino:

Quando diceva orando: - Signor mio,

questo mio cor non si può consolare:

tu solo se' quel che lo puoi quietare.

Allora l'assale la Disperazione e dice:

Pensa che la giustizia arà il suo loco

e tu hai fatt'assai ben di peccati:

- O tu dirai: - io non vo' disperarmi

perché Dio è parato a perdonarmi? -

Ma l'anima risponde allo scherno, cacciandola da sè:

E tu va via, bestiaccia maledetta.

Segue un'altra disputa tra la Carità, della quale san Paolo celebra le lodi, e l'Odio, in cui spunta l'ombra di un carattere, qualche cosa di simile a un capitano millantatore:

Vòltati in qua, porgimi un po' l'orecchio

e non guardar ch'io sie canuto e vecchio.

Guardami un po' s'i' sono un bel vecchiardo,

e per antichità tutto canuto,

nell'operar son giovane e gagliardo,

a ricordar l'ingiuria molto astuto,

nel mio discorrer non son pigro o tardo,

conosco tutte le persone al fiuto:

subito che tu pigli qualche sdegno,

in un momento io vi fo su disegno.

La Carità t'exorta a perdonare,

ed io ti dico: - Non lo voler fare. -

Il perdonar vien da poltroneria

e d'animo ch' è pien di debolezza;

e chi t'ingiuria o dice villania,

quando che tu sopporti, e' vi s'avvezza:

rendigli il cambio a ognun, sia chi si sia,

mettigli al collo una grossa cavezza,

non lasciar mai la vendetta a chi resta,

e a chi fosse, dàgli in su la testa.

Io venni qui con una spada in mano

per istar teco e messimi l'elmetto,

io son del Satanasso capitano,

attengo volentier quel ch'io prometto:

quand'io veggo per terra il sangue umano,

mi genera a vederlo un gran diletto,

e tengo sempre 'l mio caval sellato

per esser presto presto in ogni lato.

Oh quante brighe, oh quante occisioni

son per me fatte in città e in castella:

ho buon affar nelle religioni,

Vommene pe' conventi in ogni cella,

metto l'un l'altro in gran divisioni

i' facendo mormorar di chi favella,

poi mi metto in cammino e in poch'ore

mi trovo in corte di qualche signore.

L'ultima battaglia è tra il Senso o la Sensualità e la Ragione. L'anima pregando si sente sopraffatta dal corpo:

Io ti vorrei, Signor, sempre servire,

ma questo corpo m' è molto molesto;

che s'io voglio vegliar, e' vòl dormire,

ogni po' di disagio lo fa mesto,

e comincia di fatto a impallidire.

la Sensualità che vede questo mi dice:

- Tu vorrai volar senz'ale,

e dare un buon guadagno allo spedale. -

E la Sensualità, così invocata, le dice beffando:

Tu vorresti ir al ciel così vestita:

io ti vo' dire il ver senza rispetto:

a me pare che tu ti sie smarrita,

faresti meglio a picchiarti un po' il petto:

non vorresti patir caldo, nè gielo,

e calzata e vestita andare in cielo.

Ma ecco la Ragione dire all'anima:

Deh dimmi, anima mia, ch'hai tu avuto,

io m'era appunto appunto addormentata.

E saputo il fatto, dice della sua nemica:

Ella è una bestiaccia sì insolente,

bisogna non lasciar punto la briglia:

battila spesso senza discrezione,

e non gli mostrar mai compassione.

Ma che dovevo fare? - dice l'anima:

Dovevi tutta aprirti nelle braccia,

a pigliare una mazza tanto grossa,

che rompessi la carne e tutte l'ossa.

La Sensualità non se ne spaventa, e dopo uno scambio di villanie aggiunge:

Questa Ragione è sol ipocrisia,

e non sa appena dir l'ave Maria.

E m'incresce di te c'hai questo sprone,

bisognerà che tu te lo cavassi.

Deh! fa a mio modo, piglia un buon mattone,

dàgli nel capo che tu lo fracassi.

La sta 'l dì e la notte inginocchione

col collo torto e dice pissi passi... :

- Piglia qualche piacer, deh fa' a mio modo,

che a dargli un po' di spasso gli è dovuto.

La Ragione è vinta e l'anima cede. Ella desidera una ghirlanda con un nodo,

come di quelle ch'io ho già veduto.

E il demonio aggiunge:

Fàtt'un bel tocco di velluto rosso

e una zimarra per tenere in dosso.

Così la Ragione è impotente senza la Grazia. Comparisce Dio stesso:

Vòltati a me, non mi far resistenza,

ch'io t'ho aspettato e aspetto a penitenza.

L'anima pentita del mal pensiero risponde:

Non merito da te essere udita

pe' miei gravi pensieri, iniqui e stolti.

Io ho la tua bontà tanto schernita,

ch'io non son degna che tu mi ti volti,

e senza te io son come smarrita,

nessun non trovo che il mio cor conforti.

Se tu, Signor, che hai per me il sangue sparso,

non mi soccorri, ogni rimedio è scarso.

Allora Dio le manda in soccorso le virtù cardinali, Prudenza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Misericordia, Povertà, Pazienza, Umiltà. Ciascuna parla di sè, citando talora questo o quel passo della Bibbia. Ecco alcuni brani:

PRUDENZA - Io ti conforto che tu sia prudente

in tutte l'opre tue come il serpente.

TEMPERANZA - Terrai la via del mezzo in ogni cosa,

e sarà la tua mente graziosa.

FORTEZZA - Tullio dice di me questa parola:

che ognun venga a imparare alla mia scuola.

Che la Fortezza ancor rapisce il cielo,

lo dice san Matteo nell'Evangelo.

GIUSTIZIA - Dice David con la sua voce amena:

"Di Giustizia è la destra d'Iddio piena."

MISERICORDIA - Mercè, mercè, o Giustizia divina,

abbi pietà dell'alma pellegrina... ;

perdona volentieri a chiunche erra,

ché son rinchiusi in un vaso di terra.

E questo vaso è sì pericoloso,

nel quale sta rinchiusa questa gioia.

Mentre che l'alma resta in questa vita,

di lacci trova presi tutt'i passi:

però bisogna a lei il divin aiuto,

ché senza quello ogni cosa è perduto.

POVERTÀ - Io son la Povertà, o città mia,

che non so chi mi voglia in compagnia.

E son quella virtù che da' potenti

son rifiutata e mandata al profondo:

non è nessun che di me si contenti,

eziandio que' ch'han lasciato il mondo.

Ognun va dreto a' ricchi e bei presenti,

ma io di mendicar non mi vergogno,

perché gli è di me scritto nel Vangelo:

"Quel che mi segue arà il regno del cielo."

PAZIENZA - O popul mio, io son la Pazienzia;

che più non ho chi mi dia audienzia.

O degna Povertà, virtù perfetta,

che tanto fust'accetta al Verbo eterno... ,

felice è quella che ti sta suggetta,

nel ciel sarà felice in sempiterno;

che non si può godere in questa vita,

e il paradiso avere alla partita.

POVERTÀ -... M'affliggo e doglio

che la perfezione quasi è mancata,

non è più il tempo de' padri passati,

ch'erano pover, vili e disprezzati.

PAZIENZA - Chi pensa andare al ciel per altra via,

che per patir, si troverà ingannato.

Giesù diletto figliuol di Maria

n'ha dato esempio e a tutti ha insegnato...

Per dimostrarci che s'avea a patire,

elesse su la croce di morire.

UMILTÀ - L'Umiltade son io, fratei diletti,

oggi non c'è nessun che mi raccetti...

Vestitevi di Cristo, o genti stolte,

non vi avvedete voi che il tempo vola?

Non entra in paradiso alcun difetto,

non v'entra quel ch'a Dio non è suggetto.

Andiam cercando, care mie sorelle,

per tutto il mondo un po' nostra ventura:

se nel gregge di Cristo una di quelle

ci ricevessi con la mente pura,

perché noi siam vestite poverelle,

non vorrei gli facessimo paura;

ch'oggidì le virtù non son richieste,

ma fassi onore a chi ha le belle veste.

L'anima contrita e fortificata alza un canto a Dio:

A te mi do, Signor clemente e pio,

e voglio a te servir tutt'i miei anni,

altro che te non bramo e non desio.

Io ho fuggito il mondo pien d'affanni,

dove si trova sol doglia o mestizia,

ben è infelice chi veste suo' panni.

Ei mostra nel principio la letizia,

e di dover donar pace e riposo:

di poi non dà se non pianto e tristizia.

O mondo cieco, falso e tenebroso,

che hai tant'amator in questa vita,

e non mostri il velen che hai drento ascoso,

per dolenti poi farli alla partita.

Colpita da grave infermità, dice:

O m'è venuto tanto male addosso,

che più star ritta niente non posso.

Che vuol dir questo? È mi manca la vita.

Giesù Giesù, dolce Signore, aita.

Intorno alla morente fanno l'ultima battaglia l'angiolo e il demonio. Gli argomenti dell'angiolo si possono ridurre in questi tre versi:

Umana cosa è cascare in errore,

e angelica cosa è il rilevarsi... ,

sol diabolica cosa è star nel vizio.

Dio accoglie l'anima e pronunzia il suo giudizio:

E questa è la mia ultima sentenzia,

che la venghi a fruir la mia presenzia.

E l'angiolo dice

Partite tutti: la sentenza è data:

sonate per dolcezza una calata.

E il coro accompagna l'anima al cielo con questo canto:

O felice alma, che dal corpo sciolta

e per amor congiunta col tuo Dio,

la vita t'è donata e non t' è tolta... ,

sei fatta ricca di un prezzo sì pio,

e con veste sì bella e nupziale

al convito starai celestiale.

Così finisce questa rappresentazione, detta "commedia" perché si conchiude con la salvazione e non con la perdizione dell'anima. È detta anche "misterio", per la sua natura allegorica. È uno degli antichissimi misteri liturgici, ritoccato, ripulito, rammodernato e fatto laico a' tempi di Lorenzo de' Medici e forse più in là, a giudicare dalla forma franca e spigliata, da certi tentativi di formazione artistica, come nelle figure del demonio, dell'Odio, della Sensualità, della Povertà, e da un certo non so che beffardo e grottesco, che svela poca serietà e unzione nello scrittore e negli spettatori. Ma se la trama è moderna, la stoffa è antica, e ricorda il duello del Senso e della Ragione, così comune negli scritti volgari che apparvero prima, e la battaglia de' vizi e delle virtù del Giamboni, e le tre allegorie cristiane. Anzi questa Commedia dell'anima non è se non le tre allegorie messe in rappresentazione. Là trovi tre gradi di santificazione, Umano, Spoglia e Rinnova. E anche qui l'anima è prima combattuta dal senso e cade ne' suoi lacci, perché "umana cosa è cascare in errore", poi fa la sua penitenza, si spoglia e si monda della scoria del peccato, e così a Dio si rimarita, come dice Dante, o, come dice il nostro autore, sta "al convito celestiale con veste bella e nuziale". Questi tre gradi aveano la loro formazione liturgica nell'inferno, purgatorio e paradiso, che erano appunto il senso, l'Umano puro, abbandonato a se stesso, lo Spoglia o la penitenza, che purga o monda l'anima, e il Rinnovamento o la luce mentale, la beatitudine. Questo era il concetto delle rappresentazioni che aveano a materia l'altro mondo, come quella di cui fa menzione Giovanni Villani, che ebbe luogo a Firenze. L'altro mondo era la storia, o come si diceva la "Commedia dell'anima", la quale non potea giungere a redimersi dall'umanità, dal corpo, dalla carne, dall'inferno, se non con la penitenza, purificandosi e purgandosi, e così contrita e confessa diveniva leggiera, saliva al cielo. Questa Commedia spirituale dell'anima, di cui ho voluto dare un sunto possibilmente esatto, è il codice di quel secolo, il contenuto astratto e generale, particolarizzato nelle vite, nelle leggende, ne' trattati e nella lirica Spiritus intus alit. Lo spirito che alita per entro a quelle prose e a quelle poesie è la "Commedia dell'anima".

Ma in tante prose e in tante poesie non ci è ancora un vero lavoro d'individuazione e di formazione. Il contenuto rimane nella sua astratta semplicità, innominato e impersonale, l'anima. Essendo il suo fondamento la contemplazione e non l'azione, o un'azione negativa, la resistenza agl'istinti e agli affetti naturali, non penetra nella vita, non ne assume tutte le forme, non diventa la società. Certo, quell'azione negativa è molto poetica, è il sublime religioso, e tocca il cuore, quando è rappresentata con semplicità e unzione. Ma in questo contrasto tra il sentimento religioso e la natura, ciò che move più è il grido della natura, come ne' lamenti della madre di santo Alessio o di santa Eugenia, o nel dolore d'Isacco nel Sacrifizio di Abraam, che all'annunzio della sua morte chiama la madre:

O santa Sara, madre di pietade,

se fussi in questo loco, io non morrei...

Tutta è l'anima mia trista e dolente

per tal precetto, e sono in agonia.

Tu mi dicesti già che tanta gente

nascer doveva della carne mia.

Il gaudio volge in dolor sì cocente,

che di star ritto non ho più balìa.

S'egli è possibil far contento Dio

fa ch'io non mora, o dolce padre mio.

Quantunque questo non sia che uno de' lati più angusti e solitari della vita umana, così ricca e varia ne' suoi aspetti, pure offre contrasti e gradazioni, che lo rendono capacissimo di un grande sviluppo artistico. Ma in quel suo albore la letteratura ha lo stesso carattere che mostra nella decadenza, la naturalità o materialità del contenuto. Tante vite e storie e leggende e visioni stuzzicavano la curiosità con la varietà e novità degli accidenti, e si attendeva più allo spettacoloso, a colpire l'immaginazione con apparizioni nuove e maravigliose, che a lavorarle e svilupparle. Mancava la virtù di mettersi gli oggetti a distanza e trasformarli: la realtà anche nuda era per se stessa maravigliosa e bastava ad ottenere l'effetto, operando in modo semplice e immediato sullo scrittore e su' lettori.

Oltreché, siccome il contenuto riposava su di una dottrina liturgica, stabilita e inalterabile, poco era accomodato ad una rappresentazione libera e artistica, anche quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da' laici, come fu anche de' misteri. Impadronirsi di quel contenuto, cacciarlo dalla sua generalità, dargli corpo e persona, sarebbe sembrata una profanazione. Lo spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per via di esempli, di sentenze e di allegorie, come si vedea nella Bibbia. Il reale, il concreto non avea valore se non come figura della dottrina. Ecco ad esempio in che modo è nella Commedia dell'anima figurato il paradiso:

In su quel monte dove sta il Signore,

v'è una fontana traboccante e bella,

che sempre getta un mirabil liquore.

D'oro e d'argento n'è la sua cannella,

le sponde di smeraldi e d 'oro fine,

e tutta la città circonda quella.

Salite al monte, o alme peregrine,

salite al monte, e lassù troverete

soprabbondanti le grazie divine.

Le ultime parole spiegano la figura. Quella è la fontana della divina Grazia. Con questa tendenza lo scrittore sta contento alla semplice personificazione e gli pare di aver fatto assai a dare una immagine che renda chiaro e sensibile il suo concetto. Oltre a ciò, l'uomo colto, schivo delle forme semplici e volgari dell'umile credente, mira a trasformare quella dottrina in un contenuto scientifico, e la traduce nelle forme scolastiche, e di questa fede ragionata e sillogizzata fa la filosofia, figliuola di Dio. Lo studio del secolo è di allegorizzare e dimostrare, anziché di rappresentare; è di chiarire quel contenuto, lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo, anziché coglierlo in azione e nell'atto della vita. Perciò l'opera letteraria tiene dell'allegoria e del trattato, e ciò che è mera rappresentazione rimane nell'infanzia. Mai non ti senti ben fermo in terra, in mezzo a uomini vivi, con tali caratteri, passioni e costumi, anzi lo scrittore ti par quasi estraneo alla società e alle sue lotte, e dimora nell'astratta e monotona generalità della sua contemplazione. E quando pur scende a rappresentare la vita, ti senti d'un tratto balzato nel regno de' misteri, delle leggende e delle visioni, nell'altro mondo.

La visione è in effetti la forma naturale di questo contenuto, quando si vuol rappresentarlo. La vita e la realtà è il senso, la carne, il peccato, e lo scrittore o guarda e passa, o se pur vi si trattiene, è per maledirla, rappresentandola non quale appare in terra, ma quale è nell'altro mondo. La rappresentazione è dunque la visione della realtà, come sarà dopo la morte, e là si spazia e si diletta l'immaginazione. E se il mistero è commedia, ed ha per conclusione la santificazione e la beatitudine, la visione è spesso pittura delle pene infernali, lasciate alla libera immaginazione de' predicatori, de' vescovi, de' frati, de' santi Padri, che col terrore operavano sulle rozze immaginazioni. Laghi di zolfo, valli di fuoco o di ghiaccio, botti d'acqua bollente, rettili, vermi, dragoni da' denti di fuoco, demòni armati di lance, di fruste, di martelli infocati, cadaveri putridi e inverminiti, scheletri tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, dannati inchiodati al suolo con tanti chiodi che "non pare la carne", o sospesi per le unghie in mezzo al zolfo, o menati e rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a "cerchi rosseggianti", o infissi a spiedi giganteschi che i demòni irrugiadano di metalli fusi: ecco la realtà delle visioni, rappresentata co' più vivi colori. I tre monaci che si mettono in viaggio per iscoprire il paradiso terrestre, dopo quaranta giorni di cammino attraversano l'inferno:

"E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel lago e stridere, come di mirabili popoli che piagnessero e urlassero. E pervenuti che sono fra due monti altissimi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con quattro catene, e due delle quali eran confitte nell'un monte e l'altre due nell'altro; e tutto intorno a lui era fuoco, e gridava sì fortemente che si udiva bene quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda, laidissima e scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo, e quando ella volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il capo in bocca, e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi infino a terra."

Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura del dragone:

"Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori, e la barba e i capelli pareano d'oro, e ' denti suoi parevano di ferro, e gli occhi acuti e lucenti come fuoco acceso, e colla bocca aperta menava la lingua, e parea che per le nari e per la bocca gittasse fuoco, e puzzo gittava di zolfo."

Tra le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio di frate Alberico, e quella d'Ildebrando, poi Gregorio settimo, che predicando innanzi a papa Niccolò secondo, narra di un conte ricco, e insieme onesto, "ciò che è proprio un miracolo in questa gente", egli dice. Questo conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo d'una scala lunghissima, che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù nell'inferno. Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest'ordine, che quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino, e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un grado verso l'abisso, dove tutti l'uno appresso l'altro si sarebbero riuniti. E chiedendo il santo uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in terra buona fama di sè, si udì una voce rispondere: - Uno degli antenati, di cui il conte è l'erede in decimo grado, tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione. - Questa pena, che colpisce un'intera generazione, è molto poetica, mostrando l'inferno nel sublime d'un lontano indeterminato, messo costantemente innanzi all'immaginazione de' condannati, che a grado a grado vi si avvicinano insino a che non vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano l'inferno.

Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, è il peccato; che la virtù è negazione della vita terrena, e contemplazione dell'altra; che la vita non è la realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtà non è quello che è, ma quello che dee essere, ed è perciò la scienza, o la verità, come concetto, e come contenuto, è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio e il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia.

Appunto perché l'individuo è pulvis et umbra, e la realtà è pura scienza ed un di là della vita, questo mondo resiste ad ogni sforzo d'individuazione e di formazione. Lo stesso amore, così possente, non ci può gittare un po' di calore e non ci vive se non come figura e immagine dell'amore divino. La donna, come donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l'uomo a Dio.

Il maggior grado di realtà, a cui questo mondo sia pervenuto, è nella lirica di Dante. La donna di quel secolo acquista il suo nome e la sua forma, è Beatrice, la fanciulla uscita pura dalle mani di Dio, come l'anima nella commedia spirituale, breve apparizione, tornata così presto in cielo tra' canti degli angioli. La sua vita terrena è quasi non altro che nascere e morire. La sua vera vita comincia dopo la morte, nell'altro mondo. Ivi è luce mentale o intellettuale, verità e scienza, filosofia. Ma non è filosofia incarnata, mondo vivente, dove l'idea di Dio o del vero sia perfettamente realizzata; è pura scienza, incapace di rappresentazione nella sua forma scolastica di trattato e di esposizione. È scienza non ancora realizzata, non ancora corpo; è idea, non è visione; è didattica, non è commedia o rappresentazione. Hai "misteri" e visioni; manca il Mistero e la Visione, cioè un mondo vivente nel suo insieme e ne' suoi aspetti, dove sia realizzato quel concetto teologico e filosofico dell'umanità, comune al secolo e rimasto ancora nella sua astrazione dottrinale.

Il secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando una lingua già formata, molta varietà di forme metriche, una poetica, una rettorica, una filosofia, ed un concetto della vita ancora didattico e allegorico, con rozzi tentativi di formazione e individuazione. Il suo primo individuo poetico è Beatrice, il presentimento e l'accento lirico di un mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora fuori della vita.









VI - IL TRECENTO

Quello che il secolo precedente concepì e preparò, fu realizzato in questo secolo detto aureo. I posteri compresero sotto questo nome tutto un periodo letterario, dove si trovano mescolati dugentisti e quattrocentisti. E in verità le notizie cronologiche sono sì scarse e incerte, che non è facile assegnare di ciascuno scrittore l'età, seguire strettamente l'ordine del tempo. Al nostro scopo è più utile seguire il cammino del pensiero e della forma nel suo sviluppo, senza violare le grandi divisioni cronologiche, ma senza cercare una precisione di date, che ci farebbe sciupare il tempo in conietture e supposizioni di poco interesse.

Questo secolo s'apre con un grande atto, il Giubileo, pontefice Bonifazio ottavo. Tutta la cristianità concorse a Roma, d'ogni età, d'ogni sesso, di ogni ordine e condizione, per ottenere il perdono de' peccati e guadagnarsi la salute eterna. Tutti animava lo stesso concetto espresso così variamente in tante prose e poesie: la maledizione del mondo e della carne, la vanità de' beni e delle cure terrestri e la vita cercata al di là della vita. Il nuovo secolo cominciava, consacrando in modo tanto solenne il pensiero comune nella varietà della cultura. I preti e i frati soprastavano nella riverenza pubblica, non solo pel carattere religioso, ma per la dottrina, tenuta loro privilegio, tanto che il Villani loda di scienza Dante, aggiungendo: "benché laico", e i dotti uomini, benché laici, erano detti chierici. Tutta la società italiana, raccolta colà dallo stesso fine, rendeva una viva immagine di quel pensiero comune e di quella varia cultura. Vedevi i contemplanti, i remiti, i solitari del deserto e della cella col corpo macero da' digiuni, da' cilizii e dalle vigilie, ritratti viventi de' misteri e delle leggende. C'erano gli umili di spirito, animati da schietto sentimento religioso e che tenevano la scienza come cosa profana, e ci erano i dotti, i predicatori e i confessori, il cui testo era la Bibbia e i santi Padri. Vedevi gli scolastici e gli eruditi, teologi e filosofi, che univano in una comune ammirazione i classici e i santi Padri, disputatori sottili di tutte le cose e anche delle cose di fede, parlanti un latino d'uso e di scuola, vibrato, rapido, vivace, dove sentivi il volgare destinato a succedergli, amici della filosofia con quello stesso ardore di fede che gli altri si professavano servi del Signore, ma di una filosofia non ripugnante alla fede, anzi sostegno, illustrazione e ragione di quella, confortata da sillogismi e da sentenze e da citazioni, dove trovi spesso Tullio accanto a san Paolo. Alteri della loro scienza e del loro latino, spregiatori del volgare, da costoro uscivano que' trattati, que' comenti, quelle "somme", quelle storie, che empivano di maraviglia il mondo. Accanto a questi veggenti della fede e della filosofia, a questa vita dello spirito, trovi la vita attiva e temporale, affratellati dallo stesso pensiero i signori e i tirannetti feudali e i priori e gli anziani delle repubbliche, il cavaliere de' romanzi e il mercatante delle cronache. Là, appiè del Coliseo, un ardito negoziante, Giovanni Villani, pensò che la sua Fiorenza, figliuola di Roma, era non meno degna di avere una storia, e la scrisse. Fra tanto splendore e potenza del chiericato, lo spregiato laico cominciava a levare la testa e pensava all'antica Roma e a Firenze, figliuola di Roma. Là molte amicizie si strinsero, molte paci si fecero, come avviene in certi grandi momenti della storia umana; sparirono guelfi e ghibellini, ottimati e popolari, baroni e vassalli, stretti tutti ad una sola bandiera: uno Dio, uno papa, uno imperatore. Là il papato ebbe l'ultimo suo gran giorno, l'ultimo sogno di monarchia universale, rotto per sempre dallo schiaffo di Anagni.

Il giubileo ci dà una immagine di quello che dovea essere la letteratura nel secolo decimoquarto. Ebbe dal secolo antecedente la sua materia, i suoi istrumenti e il suo concetto, del quale il giubileo fu una così splendida manifestazione. Ma quel concetto, rimaso nella sua astrazione intellettuale e allegorica, con così scarsi inizi di rappresentazione ne' misteri e nelle visioni, ancora senza nome altro che di Beatrice, breve apparizione, svaporata subito nelle astrattezze della scienza, ebbe nel Trecento la sua vita, e venne a perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e la gloria di quel secolo.

L'uomo, che dovea dare il suo nome al secolo, avea già trentatrè anni, avea creato Beatrice e volgea nella mente non so che più ardito, che dovesse abbracciare tutta l'umanità. Tenzonava nel suo capo il filosofo e il poeta: ci era il Convito e ci era la Commedia. Ma, per apprezzare più degnamente quella vasta sintesi che ne uscì, è bene preceda l'analisi, studiando la fisonomia del secolo negl'ingegni più modesti che non conobbero, di tutto quel mondo, se non questa o quella parte.

E c'incontriamo dapprima nella letteratura claustrale, ascetica, mistica, religiosa, continuazione in prosa di fra Iacopone, ma in una prosa piena di poesia. Domenico Cavalca, l'autore de' Fioretti, Guido da Pisa, Bartolomeo da San Concordio, Iacopo Passavanti, Giovanni dalle Celle non sono scrittori astratti e impersonali, come quelli del secolo innanzi, ma, anche volgarizzando, senti che quegli uomini prendono viva partecipazione a quello che scrivono, e vivono là dentro, e ci lasciano l'impronta del loro carattere e della loro fisonomia intellettuale e morale. Usciamo dalle astrattezze de' trattati e delle raccolte sotto nome di "fiori", "giardini" e "tesori", ed entriamo nella realtà della vita, nel vero giardino dell'arte. Perché questi uomini non ragionano, non disputano, e di rado citano: la loro dottrina va poco al di là della Bibbia e de' santi Padri: ma narrano quel medesimo che si rappresentava ne' misteri, vite, leggende e visioni, e sono narrazioni più vive e schiette, che non i misteri del Quattrocento, raffazzonamenti degli antichi, con più liscio, ma dove desideri la purità e semplicità delle prime ispirazioni.

Gli scrittori son tutti frati, ed hanno le qualità degli uomini solitari, il candore, l'evidenza, e l'affetto. Hanno l'ingenuità di un fanciullo che sta con gli occhi aperti a sentire, e più i fatti sono straordinari e maravigliosi, più tende l'orecchio e tutto si beve: qualità spiccatissima ne' Fioretti di san Francesco, il più amabile e caro di questi libri fanciulleschi. L'immaginazione concitata dalla solitudine presenta gli oggetti così vivi e propri, che vengon fuori di un getto, non solo figurati, ma animati e coloriti caldi ancora dell'impressione fatta sullo scrittore. Nel quale l'affetto è tanto più vivace e impetuoso e lirico, quanto la sua vita è più astinente e compressa: quasi vendetta della natura, che grida più alto, dove ha più contrasto. Non ci è in queste prose alcuna intenzione artistica, nessun vestigio di studio, o di sforzo, o di esitazione, o di scelta; manca soprattutto il nesso, la distribuzione, la gradazione. Ma si conseguono tutti gli effetti dell'arte che nascono da movimenti sinceri e gagliardi dell'immaginazione e dell'affetto, e n'escon pagine animate, e potenti assai più sul tuo spirito che non tanti romanzi moderni. Cito fra l'altro la storia di Abraam romito, che prende veste e costume di cavaliere mondano, e mangia pane e beve vino ed usa nelle taverne per convertire la sua nipote Maria. Il suo incontro con Maria nella taverna, gli allettamenti lascivi di costei, la sua sorpresa e vergogna quando nel bel cavaliere scopre il suo zio, e i rimproveri affettuosi di lui e le grida strazianti e disperate della bella pentita sono una vera scena drammatica, alla quale non trovi niente comparabile nel teatro italiano. In queste Vite del Cavalca, che sono traduzioni, ma per la freschezza e spontaneità del dettato e per la commossa partecipazione del frate sono cosa originale, il concetto del secolo, uscito dalle astrattezze teologiche e scolastiche, prende carne, acquista una esistenza morale e materiale. Il santo è esso medesimo il concetto divenuto persona, e la sua rappresentazione ti offre il nuovo mondo morale aperto al cristiano, fatto attivo e divenuto storia, la storia del santo. Cardine di questo mondo morale è la realtà della vita nell'altro mondo e la guerra a tutti gl'istinti e affetti terreni, l'astinenza e la pazienza, il "sustine et abstine"; e però le sue virtù non esprimono altro che la vittoria dell'uomo sopra se stesso, sulla sua natura: indi l'umiltà, il perdono delle offese, la povertà, la castità, l'ubbidienza. Se la vittoria fosse preceduta dalla lotta, lo spettacolo sarebbe sublime; ma il più sovente il santo entra in iscena ch'è già santo e nell'esercizio quieto delle sue cristiane virtù, interrotto a volte dalle tentazioni del demonio cacciato via da scongiuri e segni di croce: ciò che è grottesco più che sublime. Il santo è troppo santo perché la sua vita possa offrirti una vera contraddizione e battaglia tra il cielo e la natura, ciò che rende così drammatica la vita di Agostino e di Paolo. Qui hai racconti uniformi, infinite ripetizioni, rarissimi contrasti, e spesso provi noia e stanchezza. La musa di queste cristiane virtù non è la forza, e non è l'azione, ma è un certo languir d'amore, una effusione di teneri e dolci sentimenti, liriche aspirazioni ed estasi e orazioni, un impetuoso prorompere degli affetti naturali tosto sedato e riconciliato, il sacrificio ignorato e oscuro che ha la sua glorificazione anche terrena dopo la morte. Una delle vite più interessanti e popolari è quella di santo Alessio, che abbandona la nobile casa paterna e la sposa il dì delle nozze, e va peregrinando e limosinando, e dopo molti anni tornato in patria, serve non conosciuto in casa del padre, e non si scopre alla madre e alla sposa, e i servi gli danno le guanciate, e lui umile e paziente. Questa vittoria sulla natura non fa effetto, perché in Alessio non ci è l'"homo sum", non ci è lotta, non la coscienza del sacrifizio, parendo a lui naturale e facile esercizio di virtù quello che a noi uomini pare cosa maravigliosa e quasi incredibile. L'innaturale è in lui natura: perfezione ascetica, ma non artistica. L'interesse comincia, quando la natura fa sentire il suo grido, e col suo contrasto sublima il santo; quando, saputo il fatto, il pontefice con infinita moltitudine traendo a venerare il servo spregiato, si odono tra la folla queste grida: "Prestatemi la via, datemi loco, fate che io vegga il figliuol mio, quello che ha succiato le mammelle mie". E ragionando col cuore di madre, la donna accusa il figlio e lo chiama "senza cuore", e poi nel suo dolore lo glorifica e ricorda che i servi gli davano le guanciate. Scene simili non sono scarse in queste Vite: ricorderò la madre di Eugenia e Maria Maddalena, eloquentissima nelle sue lacrime.

Una vera intenzione artistica si scorge nello Specchio di penitenza di Iacopo Passavanti, una raccolta di prediche ridotte in forma di trattati morali, accompagnati con leggende e visioni dell'altro mondo. Il frate mira a fare effetto, inducendo a penitenza i fedeli con la viva rappresentazione de' vizi e delle pene. La musa del Cavalca è l'amore, e la sua materia è il paradiso, che tu pregusti in quello spirito di carità e di mansuetudine, che comunica alla prosa tanta soavità e morbidezza di colorito. La musa del Passavanti è il terrore, e la sua materia è il vizio e l'inferno, rappresentato meno nel suo grottesco e nella sua mitologia, che nel suo carattere umano, come il rimorso è il grido della coscienza. Intralciato e monotono nel discorso, il suo stile è rapido, liquido pittoresco nel racconto. Diresti che provi voluttà a spaventare e tormentare l'anima: cerca immagini, accessorii, colori, come istrumenti della tortura, e ti lascia sgomento e assediato da fantasmi. Il periodo spesso ben congegnato, svelto e libero, la cura de' nessi e de' passaggi, la distribuzione degli accessorii e de' colori, l'intelligenza delle gradazioni, un sentimento di armonia cupo che accompagna lo spettacolo, fanno del Passavanti l'artista di questo mondo ascetico.

Ma ecco fra tante vite di santi il santo in persona, scrittore e pittore di sè medesimo, Caterina da Siena. Abbandonata la madre e i fratelli, resasi monaca, macerato il corpo co' cilizii e digiuni, vive una vita di estasi e di visioni, e scrive in astrazione anzi dètta con una lucidità di spirito maravigliosa. Scrive a papi a principi, a re e regine, come alla madre, a' fratelli, a frati e suore, dall'altezza della sua santità, con lo stesso tono di amorevole superiorità. Nelle più intricate faccende prende il suo partito risolutamente, consigliando e quasi comandando quella condotta che le pare conforme alla dottrina di Cristo. Ho detto "pare", e dovrei dire "è": perché nessun dubbio o esitazione è nel suo spirito, e le dottrine più astruse e mentali le sono così chiare e sicure come le cose che vede e tocca. Ha la visione dell'astratto, e lo rende come corpo, anzi fa del corpo la luce e la faccia di quello. Indi un linguaggio figurato e metaforico, spesso sazievole, talora continuato sino all'assurdo. È un po' il fare biblico; un po' vezzo de' tempi; ma è pure forma naturale della sua mente. Vivendo in ispirito, le cose dello spirito le si affacciano palpabili e visibili come materia, e così come vede Cristo e angioli, vede le idee e i pensieri. È una regione spirituale, divenutale per lungo uso così familiare, che ne ha fatto il suo mondo e il suo corpo. Questa chiarezza d'intuizione, accompagnata con la squisita sensibilità e la perfetta sincerità della fede le fanno trovare forme delicate e peregrine, degne di un artista. Ma le spesse ripetizioni, l'esposizione didattica, quell'incalzare di consigli, di esortazioni e di precetti senza tregua o riposo rendono il libro sazievole e monotono.

In queste lettere di Caterina quel mondo morale, rappresentato nelle vite, nelle estasi, nelle visioni de' santi, è sviluppato come dottrina in tutta la sua rigidità ascetica. È il codice d'amore della cristianità. La perfezione è "morire a se stesso" secondo la sua frase energica, morire alla volontà, alle inclinazioni, agli affetti umani, sino all'amore de' figli, e tutto riferire a Dio, di tutto fare olocausto a Dio. Il suo amore verso Cristo ha tutte le tenerezze di un amore di donna, che si sfoga a quel modo, lei inconscia. L'ultima frase di ogni sua lettera è: "Annegatevi, bagnatevi nel sangue di Cristo". Ardente è la sua carità pel prossimo: "Amatevi, amatevi", grida la santa, e predica pace, concordia, umiltà, perdono, voce inascoltata. La regina Giovanna rispondea alla santa con riverenza, e continuava la vita immonda. Lo scisma giungeva al sangue nelle vie di Roma. Più alto e puro era l'ideale della santa, meno era efficace sugli uomini. La sua vita si può compendiare in due parole: amore e morte. Celebre è la sua lettera sul condannato a morte, da lei assistito negli ultimi momenti: "Teneva il capo suo sul petto mio. Io allora sentivo un giubilo e un odore del sangue suo; e non era senza l'odore del mio, il quale io desidero di spandere per lo dolce sposo Gesù". Il sangue di Cristo la esalta, la inebbria di voluttà. Ad una serva di Dio scrive: "Inebriatevi del sangue, saziatevi del sangue, vestitevi del sangue". "Sudare sangue", "trasformarsi nel sangue", "bere l'affetto e l'amore nel sangue", sono immagini di questo lirismo. Della cella "si fa un cielo", e vi gusta "il bene degl'immortali, obumbrandola Dio di un gran fuoco d'amore". Nella estasi o visione o esaltazione di mente, è gittata giù, e le pare come se l'anima sia partita dal corpo. Il corpo pareva quasi venuto meno. Le membra del corpo, dice Caterina, si sentivano dissolvere e disfare come la cera nel fuoco. E altrove: "Nel corpo a me non pareva essere, ma vedevo il corpo mio come se fosse stato un altro". Questi ardori d'anima, queste illuminazioni di mente, questi martìri d'amore sono espressi con una semplicità ed evidenza, che testimoniano la sua sincerità. L'anima "innamorata e ansietata d'amore, affocata" dal desiderio "crociato" o della croce, "annegata la propria volontà" nell'amore del "dolce e innamorato Verbo", vive nel corpo come fosse fuori di quello. Posto il suo amore al di là della vita, vive morendo, dimorando con la mente al di là della vita. Ma questa morte spirituale non l'appaga: "muoio e non posso morire", dice la santa. Gli ultimi giorni furono battaglie con le dimonia e colloquii con Cristo, e a trentatrè anni finì la vita, consumata dal desiderio.

La "Commedia dell'anima" è ora pienamente realizzata nel suo aspetto religioso, come espressione letteraria. Quell'anima ora ha un nome, è una persona, Alessio, Eugenia, Caterina. Il demonio e la carne sono un mondo pieno di vita ne' racconti del Passavanti. Quelle virtù allegoriche che escono in processione sulla scena sono le opere, le volontà, le passioni e i pensieri de' santi. E la Divina Commedia, la trasfigurazione e la glorificazione dell'anima, la Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo tra i canti degli angioli, qui sono estasi, rapimenti dell'anima, colloquii con Dio, mistica unione con Cristo, e dopo la morte la santificazione e la contemplazione nell'eterna luce. Quel concetto è uscito dall'astrattezza della scienza e dell'allegoria, dalla sua vuota generalità, e si è incarnato, è divenuto uomo.

La prosa italiana in questa letteratura acquista evidenza, colorito, caldezza di affetto, in un andar semplice e naturale, specialmente quando vi si esprimono sentimenti dolci e ingenui. È perfetto esemplare di stile cristiano, guasto di poi. Alla sua perfezione manca un più sicuro nesso logico, maggiore sobrietà e scelta di accessorii, ed una formazione grammaticale e meccanica più corretta. Con lievi correzioni molti brani possono paragonarsi a ciò che di più perfetto è nella prosa moderna. L'Imitazione di Cristo è certo prosa superiore, scritta in tempo di maggior coltura. Ci è una maggiore virilità intellettuale, una logica più stretta, e pura di quella pedanteria scolastica che inseguiva i frati fino nel convento. Ma non è superiore, quanto a quelle qualità organiche, dove è il segreto della vita, la schiettezza dell'ispirazione e il calore dell'affetto; e spesso in quella prosa, mirabile di precisione e di proprietà, desideri l'energia e l'intuizione di Caterina.

Nè questa prosa era già fattura di un solo, o di pochi, perché la trovi anche ne' minori che scrivevano delle cose dello spirito. Citerò una lettera di un discepolo di Caterina, che annunzia la sua morte:

"Credo che tu sappi come la nostra reverendissima e carissima mamma se ne andò in paradiso domenica, addì 29 di aprile (1380); lodato ne sia il Salvatore nostro, Gesù Cristo crocifisso benedetto. A me ne pare essere rimaso orfano, però che di lei avevo ogni consolazione, e non mi posso tenere di piangere. E non piango lei, piango me, che ho perduto tanto bene. Non potevo fare maggiore perdita, e tu 'l sai... .Della mamma si vuol fare allegrezza e festa, quanto che è per lei; ma di quelli suoi e di quelle che sono rimasi in questa misera vita, ène da piangere e da avere compassione grandissima. Con veruna persona mi so dare dolore, quanto che con teco, che mi fusti cagione di acquistare tanto bene. Prendo alcuno conforto, perché nel mio cuore ène rimasa e incarnata la mamma nostra assai più che non era in prima; e ora me la pare bene conoscere. Chè noi miseri ne avevamo tanta copia, che non la conoscevamo e non savamo degni della sua presenzia... . Carissimo fratello, io sono fatto tanto smemoriato del bene che ho perduto, ch'io ti scrivo anfanando. E però di ciò non ti scrivo più."

Lo stesso stile è in Giovanni dalle Celle, Stefano Maconi e altri frati. Ecco in che modo commovente e semplice sono raccontati alcuni particolari della fine di Caterina:

"Nella domenica di sessaggesima svenne, e perdè il vigore di sanità, mantenutole dalla forza dello spirito, e che non pareva scemarsi per inedia. Il dì poi, un altro svenimento la lasciò lungamente come morta: se non che, risentitasi, stette in piede come se nulla fosse. Cominciò la quaresima colle solite pratiche, esercizio a lei di consolazioni angosciose. Ogni mattina, dopo la comunione le è forza rimettersi, sfinita, a letto. Di lì a due ore usciva a San Pietro un buon miglio di strada, e lì stava orando infino a vespro. Così fino alla terza domenica di quaresima, quando il male la spossò. E per otto settimane giacque senza potere alzare il capo, tutta dolori. A ogni nuovo spasimo alzando il capo, ne ringraziava Iddio lieta. Alla domenica innanzi l'Ascensione, Il corpo non era omai più che uno scheletro, nel mezzo in giù senza moto, ma nel volto raggiante la vita. Debole; un alito di respiro; pareva in fine; e le fu data l'estrema unzione."

Questa eccellenza di dettato trovi pure ne' volgarizzamenti de' classici o di romanzi e storie allora in voga, come sono i volgarizzamenti di Livio e di Sallustio, i Fatti di Enea, gli Ammaestramenti degli antichi, voltati da Bartolomeo da San Concordio con un nerbo ed una vigoria degna del traduttore di Sallustio. È una prosa adulta, spedita, calda, immaginosa, spesso colorita, con tutto l'andare di lingua viva e parlata, già nel suo fiore.

I romanzi operavano sul popolo non meno vivamente che la letteratura spirituale. Nella sua immaginazione si confondea il cavaliere di Cristo e il cavaliere di Carlomagno, e con la stessa avidità leggea la vita di Alessio e i fatti di Enea, e gli amori di Lancillotto e Ginevra. Caterina trae dalla cavalleria molte sue immagini. Chiama Cristo un "dolce cavaliere", "cavaliere dolcemente armato"; chiama la Redenzione un "torneo della morte colla vita". Ma la letteratura cavalleresca rimase stazionaria e non produsse alcun lavoro originale. Le traduzioni sono fatte senza intenzione seria, in prosa scarna e trascurata, posto il diletto nel maraviglioso de' fatti. Agli stessi traduttori è materia frivola, buona per passare il tempo, e non vi partecipano, non sentono colà dentro il loro mondo e la loro vita.

Accanto a questo mondo dello spirito e dell'immaginazione c'era il mondo reale, il mondo della carne o della vita terrena, come si dicea, che si potea maledire, ma non uccidere. Era la cronaca, memoria dì per dì de' fatti che succedevano, inanime come il dizionario, o come la lista delle spese. Quelli che ne scrivevano con qualche intenzione artistica, la dettavano in latino e la chiamavano storia. Latini erano anche i trattati scientifici e i lavori propriamente d'arte. Quella letteratura spirituale e cavalleresca rimanea circoscritta al popolo ed era tenuta in poco conto da' dotti. Costoro spregiavano il volgare, come buono solo a dir d'amore e di cose frivole, e le gravi faccende della vita le trattavano in latino. Di questi illustre per ingegno, per coltura e per patriottismo fu Albertino Mussato, coronato poeta in Padova, sua patria. Abbiamo di lui molte opere, alcune ancora inedite. Scrisse in quattordici libri De gestis Henrici septimi Caesaris, e anche De gestis italicorum post mortem Henrici septimi, in dodici libri, de' quali alcuni sono in versi esametri. Fece epistole, egloghe, elegie e due tragedie, l'Achilleis e l'Eccerinis. Quest'ultima rappresenta la tirannide di Ezzelino, creduto per la sua ferocia figlio del demonio, e la vittoria de' comuni collegati contro di lui. È narrazione più che azione, come ne' misteri, un narrare serrato e nervoso, le cui impressioni patetiche e morali sono espresse dal coro. Sotto a quel latino ossuto e asciutto palpita l'anima del medio evo. Senti una società ancor rozza, selvaggia negli odii e nelle vendette, senza misura nelle passioni, poco riflessiva, di proporzioni epiche anche in forma drammatica. Il carattere di Ezzelino non è sviluppato in modo che n'esca fuori un personaggio drammatico. Egli rimane ravvolto nel suo manto epico, come Farinata. È figlio de demonio, e lo sa e se ne gloria, e opera come genio del male, con piena coscienza: ciò che gli dà proporzioni colossali. Invoca il padre e dice:

Nullis tremiscet sceleribus fidens manus;

annue, Satan, et filium talem proba.

E quest'uomo rimane così intero e tutto di un pezzo: manca l'analisi, senza di cui non è dramma. Il concetto della tragedia è più morale che politico, quantunque il fatto sia altamente politico, rappresentando la lotta tra i comuni liberi e i tirannetti feudali. Certo, in Mussato c'è il guelfo e ci è il padovano, che l'ispira e l'appassiona. Ma il motivo tragico è affatto morale. Ezzelino è punito non perché offende la libertà, ma perché opera scelleratamente, e "qui gladio ferit, gladio perit": ciò che è in bocca al coro la conclusione del fatto:

Consors operum

meritum sequitur quisque suorum.

È il concetto ascetico dell'inferno applicato anche alla vita terrestre. Questa nella sua prima apparizione letteraria è ancora nella sua generalità morale, non è sviluppata nei suoi interessi, ne' suoi fini, nelle sue passioni e nelle sue idee politiche: di che solo può nascere il dramma. Il senso del reale era ancora troppo scarso, perché il dramma fosse possibile. Non ci è il sentimento collettivo non il partito e non la società: ci è l'individuo appena analizzato, rappresentato buono o cattivo e retribuito secondo le opere, forma elementare della vita reale. Il feroce e il grottesco delle pene infernali hanno qui un riscontro nelle immani crudeltà di Ezzelino e nella immane punizione.

Questo concetto morale, ancorché non ancora penetrato e sviluppato in tutti gli aspetti della vita, pure non è più un motto, un proverbio, un ammaestramento, un "fabula docet", una esposizione didattica in prosa o in verso, come nel secolo scorso, ma la vita in atto, con tutt'i caratteri della personalità, così nella vita contemplativa come nella vita attiva, così nel carbonaio del Passavanti come nell'Ezzelino del Mussato.

Onori straordinari furono conferiti al Mussato, tenuto pari a' classici, quando i classici erano ancora così poco noti. Anche Venezia ebbe i suoi latinisti, che scrissero la sua storia, Andrea Dandolo e Martin Sanuto. Nell'Italia settentrionale abbondano le cronache latine. Il volgare vi si era poco sviluppato. E dappertutto teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina era insegnata e trattata in latino. Scrissero le loro opere in questa lingua Marsilio da Padova, Cino da Pistoia, Bartolo e Baldo.

Ma in Toscana il Malespini avea già dato l'esempio di scrivere la cronaca in volgare. E Dino Compagni seguì l'esempio, scrivendo in volgare i fatti di Firenze dal 1270 al 1312. Attore e spettatore, prende una viva partecipazione a quello che narra, e schizza con mano sicura immortali ritratti. Non è questa una cronaca, una semplice memoria di fatti: tutto si move, tutto è rappresentato e disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni, e a tutto lo scrittore è presente, si mescola in tutto, esprime altamente le sue impressioni e i suoi giudizi. Così è uscita di sotto alla sua penna una storia indimenticabile.

Questa storia è una immane catastrofe. Da lui preveduta e non potuta impedire. E non si accorge che di quella catastrofe cagione non ultima fu lui. O piuttosto ne ha un'oscura coscienza, quando con quel tale "senno di poi" dice: - Oh se avessi saputo! Ma chi poteva pensare? - Ma Dino peccò per soverchia bontà d'animo; gli altri peccarono per malizia, e Dino li flagella a sangue. Era Bianco; ma più che Bianco, era onesto uomo e patriota. Gli pareva che que' Neri e que' Bianchi, quei Donati e quei Cerchi, non fossero divisi da altro che da gara d'uffici, e gli parea che, partendo ugualmente gli uffici, quelle discordie avessero a cessare. Gli parea pure che tutti amassero la città, come facea lui, e fossero pronti per la sua libertà e il suo decoro a fare il sacrificio de' loro odii e delle loro cupidigie. E gli parea che uomo di sangue regio non potesse mentire nè spergiurare, e che nessuno potesse mancare alle promesse, quando fossero messe in carta. E anche questo gli parea, che gli amici stessero saldi intorno a lui e che ad un suo cenno tutti gli avessero ad ubbidire. Che cosa non parea al buon Dino? E con queste opinioni si mise al governo della repubblica. È la prima volta che si trova in presenza la morale com'era in Albertano giudice e come fu poi in Caterina, la morale de' libri e la morale del mondo. E la contraddizione balza fuori con tutta l'energia di una prima impressione. Il brav'uomo al contatto del mondo reale cade di disinganno in disinganno, e ciascuna volta rivela la sua ingenuità con un accento di maraviglia e d'indignazione. Immaginatevelo alle prese con Bonifazio ottavo, Carlo di Valois e Corso Donati, ciò che di più astuto e violento era a quel tempo. L'energia del sentimento morale offeso è il secreto della sua eloquenza. Qui non ci è nessuna intenzione letteraria: la narrazione procede rapida, naturale, sino alla rozzezza. Vi è un materiale crudo e accumulato e mescolato, senza ordine o scelta o distribuzione; ignota è l'arte del subordinare e del graduare; mancano i passaggi e le giunture; il fatto è spesso strozzato; spesso il colorito è un po' risentito e teso difetti di composizione gravi. Pure le qualità essenziali che rendono un libro immortale stanno qui dentro, la sincerità dell'ispirazione, l'energia e la purità del sentimento morale, la compiuta personalità dello scrittore e del tempo, la maraviglia, l'indignazione, il dolore, la passione del cronista, che comunica a tutto moto e vita. In tempi meno torbidi, Giovanni Villani scrisse la sua Cronaca di Firenze sino al 1348, continuata dal fratello Matteo e dal nipote Filippo. Mira a dar memoria de' fatti, pigliandoli dove li trova, e spesso copiando o compendiando i cronisti che lo precessero. Sono nudi fatti, raccolti con scrupolosa diligenza, anche i più minuti e familiari, della vita fiorentina, come le derrate, i drappi, le monete, i prestiti: materiale prezioso per la storia. Ma questa cruda realtà, scompagnata dalla vita interiore che la produce, è priva di colorito e di fisonomia e riesce monotona e sazievole.

La Cronaca di Dino e le tre Cronache de' Villani comprendono il secolo. La prima narra la caduta de' Bianchi, le altre raccontano il regno de' Neri. Tra, vinti erano Dino e Dante. Tra, vincitori erano i Villani. Questi raccontano con quieta indifferenza, come facessero un inventario. Quelli scrivono la storia col pugnale. Chi si appaga della superficie, legga i Villani. Ma chi vuol conoscere le passioni, i costumi, i caratteri, la vita interiore da cui escono i fatti, legga Dino.

Finora non abbiamo creduto necessario di entrare nel vivo della storia, perché gli scrittori, o ascetici o cavallereschi o didattici, scrivono come segregati dal mondo. Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i fatti che racconta sono i fatti suoi, parte della sua vita, e la sua Cronaca è lo specchio del tempo, non nelle regioni astratte della scienza o nel fantastico della cavalleria e dell'ascetica, ma nella realtà della vita pubblica.

I partiti che straziavano Firenze con nomi venuti da Pistoia erano detti i Neri e i Bianchi, gli uni capitanati da' Donati e gli altri da' Cerchi, famiglie potentissime di ricchezza e di aderenze. Dante sperò di poter pacificare la città, mandando in esilio i due più potenti e irrequieti capi delle due fazioni, Corso Donati e Guido Cavalcanti. Venuto malato, il Cavalcanti fu richiamato, ma non Corso Donati: di che si menò molto scalpore, massime che Dante era Bianco e amico del Cavalcanti.

I Neri erano guelfi puri, e si appoggiavano sui popolani e sul papa, vicino, influente, e centro di tutti gl'intrighi e le cospirazioni guelfe. Bonifazio ottavo, venuto dopo il giubileo in maggior superbia, avea chiamato a sè con molte promesse Carlo di Valois, detto per dispregio "senza terra", e mandatolo a Firenze sotto colore di pacificare la città, ma col proposito di ristorarvi la parte nera. Qui comincia il dramma, esposto con sì vivi colori dal nostro Dino nel libro secondo.

Dante si lasciò persuadere di andare legato a Roma. Si dice abbia detto: - Se io vado, chi resta? - Restò il povero Dino. Certo, l'opera di Dante sarebbe stata più utile a Firenze, dove lasciò il campo libero agli avversari. A Roma fu tenuto con belle parole da Bonifazio e non concluse nulla.

Dino comincia il racconto con stile concitato. Sembra un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra o Gerosolima:

"Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani e distendete le vostre malizie. Non penate più: andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città. Spandete il sangue de' vostri fratelli, spogliatevi della fede e dell'amore; nieghi l'uno all'altro aiuto e servigio. Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo rende una per una... Non v'indugiate, o miseri: ché più si consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace, e piccola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno."

Qui non ci è l'uomo politico. Ci è la realtà vista da un aspetto puramente morale e religioso, come gli ascetici; il concetto è lo stesso; la materia è diversa. Considerata così, la realtà riesce al buon Dino altra che non pensava, e in luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con la realtà e la maledice. I suoi errori nascono dal concetto falso che avea degli uomini e delle cose, sì che divenne il trastullo degli uni e degli altri, perdette lo stato e fu calunniato, come avviene a' vinti. Allora prende la penna, e li maledice tutti, Neri e Bianchi, raccontando i fatti con tale ingenuità che se le male passioni degli altri son manifeste, non è men chiara la sua soverchia bontà.

Mentre gli ambasciatori armeggiano con Bonifazio, largo promettitore purché "sia ubbidita la sua volontà", furono in Firenze eletti i nuovi signori, e Dino fu di quelli. Piacque la scelta, perché "uomini non sospetti e buoni, e senza baldanza, e avevano volontà d'accomunare gli uffici, dicendo: - Questo è l'ultimo rimedio". Questo è il giudizio che porta Dino di sè e de' suoi colleghi. Ma i loro avversari "n'ebbono speranza", perché li conosceano "uomini deboli e pacifici, i quali sotto spezie di pace credeano leggiermente di poterli ingannare". Che buon Dino! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.

I Neri "a quattro e a sei insieme, preso accordo fra loro", li andavano a visitare e diceano: "Voi siete buoni uomini e di tali avea bisogno la nostra città. Voi vedete la discordia de' cittadini vostri: a voi la conviene pacificare, o la città perirà. Voi siete quelli che avete la balìa, e noi a ciò fare vi profferiamo l'avere e le persone di buono e leale animo". E benché "di così false profferte dubitassero, credendo che la loro malizia coprissero con falso parlare", pure Dino per commessione de' suoi compagni rispose: "Cari e fedeli cittadini, le vostre profferte noi riceviamo volentieri, e cominciar vogliamo a usarle: e richieggiamvi che voi ci consigliate, e pogniate l'animo a guisa che la nostra città debba posare". Che scellerati! E che buoni uomini! Non si può meglio rappresentare la malizia degli uni e l'innocenza degli altri. Scrivendo dopo i fatti, Dino si picchia il petto e dice il mea culpa: "E così perdemmo il primo tempo, perché non ardimmo a chiudere le porte, nè a cessare l'udienza ai cittadini. Demmo loro intendimento di trattar pace, quando si convenia arrotare i ferri".

Poiché si trattava la pace, i Bianchi smessero dalle offese e i Neri presero baldanza. E Dino confessa questo primo effetto della sua bontà: "La gente, che tenea co' Cerchi, ne prese viltà, dicendo: - Non è da darsi fatica, ché pace sarà. - E i loro avversari pensavano pur di compiere le loro malizie".

La voce che Bonifazio ottavo si fosse chiarito contrario a' Cerchi e che Carlo di Valois veniva in Firenze, dovea aver tanto imbaldanzito i Neri, che a costoro pareva un atto di debolezza e di paura quello che in Dino era ispirato da sincero amore di concordia. E quelle pratiche di pace spacciavano covare sotto un tradimento. La forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la forza morale passava agli avversari, più audaci, e confidenti in vicina vittoria. Già ci era un'altra aria in città. Non pur gl'indifferenti, ma anche noti seguaci de' Cerchi mutavano lingua. Sicché l'oratore di Carlo riferì che "la parte de' Donati era assai innalzata e la parte de' Cerchi era assai abbassata", veggendo come dopo le sue parole "molti dicitori si levarono in piè affocati per dire e magnificare messer Carlo".

Dino, volendo negare l'ingresso a Carlo e non osando prendere su di sè la cosa, "essendo la novità grande", si rimise al suffragio de' suoi concittadini. Fu un plebiscito fatto dal debole e che riuscì in favore de' forti: solito costume de' popoli, e il buon Dino nol sapea. I soli fornai si mostrarono uomini, dicendo che "nè ricevuto, nè onorato fusse, perché venìa per distruggere la città".

Dino credette trovare il rimedio, chiedendo a Carlo "lettere bollate, che non acquisterebbe ... niuna giurisdizione, nè occuperebbe niuno onore della città nè per titolo d'imperio, nè per altra cagione, nè le leggi della città muterebbe, nè l'uso". Dino pensava che Carlo non farebbe la lettera, e provvide che il passo gli fosse negato e "vietata la vivanda". Ma la lettera venne, e "io la vidi e fecila copiare, e quando fu venuto, io lo domandai se di sua volontà era scritta. Rispose: - Sì, certamente -". Ora che Dino ha la lettera in tasca, può viver sicuro.

E gli viene "un santo e onesto pensiero, immaginando: Questo signore verrà, e tutt'i cittadini troverà divisi, di che grande scandalo ne seguirà". Onde li rauna nella chiesa di San Giovanni, e loro fa un fervorino, perché "sopra quel sacrato fonte onde trassero il santo battesimo", giurino buona e perfetta pace. Le parole di Dino sono di quella eloquenza semplice e commovente che viene dal cuore. In quei tempi di lotte così accese il sentimento della concordia era tanto più vivo negli animi buoni e onesti, da Albertano a Caterina. E non so che in Caterina si trovino parole nella loro semplicità così affettuose come queste di Dino: "Signori, perché volete voi confondere e disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare? Contro a' vostri fratelli? Che vittoria avrete? Non altro che pianto".

Tutti giurarono; e Dino aggiunge con amarezza: "I malvagi cittadini, che di tenerezza mostravano lacrime, e baciavano il libro, ... furono i principali alla distruzione della città". Povero Dino! E si affligge il brav'uomo e si pente, e "di quel sacramento molte lacrime sparsi, pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia".

Carlo quintoenne, e diètrogli, dicendo che venìano a onorare il signore, lucchesi, perugini, e Cante d'Agobbio e molti altri, a sei e dieci per volta, tutti avversari de' Cerchi: e "ciascuno si mostrava amico". Dino fece il ponte d'oro al nemico che entra, contro il proverbio. E Carlo ebbe in Firenze milledugento cavalli.

Che fa Dino? Sceglie quaranta cittadini di amendue le parti, perché provveggano alla salvezza della terra. Ciò che ci era negli animi è qui scolpito in pochi tratti: "Quelli che avevano reo proponimento, non parlavano; gli altri aveano perduto il vigore. Baldino Falconieri, uom vile, dicea: - Signori, io sto bene, perché io non dormia sicuro". Lapo Saltarelli, per riamicarsi il papa, ingiuria la Signoria, e tiene in casa nascosto un confinato. Albertano del Giudice monta in ringhiera, e biasima i signori. Pare coraggio civile, ed è viltà e diserzione. I nemici tacciono. Gli amici ingiuriano, per farsi grazia. Cominciano i tradimenti. "I priori scrissero al papa segretamente; ma tutto seppe la parte nera, perocché quelli che giurarono credenza non la tennono".

Alfine Dino si risolve ad accomunare gli uffici, parlando "umilmente e con gran tenerezza" dello scampo della città. Ma era troppo tardi. I Neri non volevano parte, ma tutto.

"E Noffo Guidi parlò e disse: - Io dirò cosa che tu mi terrai crudele cittadino. - E io li dissi che tacesse: e pur parlò, e fu di tanta arroganza, che mi domandò che mi piacesse far la loro parte nell'ufficio, maggiore che l'altra; che tanto fu a dire, quanto: - Disfa' l'altra parte - e me porre nel luogo di Giuda. E io li risposi che innanzi io facessi tanto tradimento, darei i miei figliuoli a mangiare a' cani."

Carlo quintoolea in mano i Signori, e li facea spesso invitare a mangiare. E quelli si ricusavano, adducendo che la legge li costringea che fare non lo potevano; ma era "perché stimavano che contro a loro volontà li avrebbe ritenuti". Un giorno disse che in Santa Maria Novella fuori della terra volea parlamentare, e che piacesse alla Signoria esservi. Dino vi mandò tre soli de' compagni: "a' quali niente disse, come colui che non volea parole, ma sì uccidere".

"Molti cittadini si dolsono con noi di quella andata, parendo loro che andassono al martirio. E quando furono tornati, lodavano Dio, che da morte gli avea scampati."

Volevano, se la Signoria vi fosse ita tutta, "ucciderli fuori della porta e correre la terra per loro". E Dino che facea?

C'è un brano stupendo, che è una pittura. Vedi come Dino passava i giorni; la sua incapacità e i suoi affanni:

"I Signori erano stimolati da ogni parte. I buoni diceano che guardassero ben loro, e la loro città. I rei li contendeano con quistioni. E tra le domande e le risposte il dì se ne andava. I baroni di messer Carlo gli occupavano con lunghe parole. E così viveano con affanno."

Un rimedio gli è suggerito da frate Benedetto: - Fate fare processione, e del pericolo cesserà gran parte -. E Dino fece la processione, e molti lo schernirono, dicendo che "meglio era arrotare i ferri". E Dino conchiude, parlando di sè e de' colleghi: "Niente giovò, perché usarono modi pacifici, e voleano essere repenti e forti. Niente vale l'umiltà contro alla grande malizia".

Tutto ti è messo sott'occhio, come in una rappresentazione drammatica. Vedi i Neri in istrada, corrompere, far gente, mostrare la loro potenza. Diceano:

"- Noi abbiamo un signore in casa; il papa è nostro protettore; gli avversari nostri non sono guerniti nè da guerra, nè da pace; danari non hanno; i soldati non sono pagati. -"

E misero in ordine "tutto ciò che a guerra bisognava, ... invitati molti villani d'attorno e tutti gli sbanditi". I Neri si armavano; i Bianchi no, perché era contro la legge, e Dino minacciava di punirli. E ora che scrive, a scolparsi nota che fu per avarizia, perché fece dire a' Cerchi: "- Fornitevi, e ditelo agli amici vostri -".

I Neri, "conoscendo i nemici loro vili e che aveano perduto il vigore", vengono a' ferri. I Medici lasciano per morto Orlandi, un valoroso popolano. Si grida a' priori: - Voi siete traditi, armatevi -.

Ecco finalmente sventolare sulle finestre il gonfalone di giustizia. Molti vanno nascosamente ... dal lato di parte nera. Ma traggono alla Signoria i soldati che non erano corrotti, e altre genti, e amici a piè e a cavallo. Era il momento di operare con vigore. Ma "i Signori non usi a guerra erano occupati da molti che voleano essere uditi; e in poco stante si fe' notte". Il podestà non si fe' vivo. Il capitano non si mosse, come "uomo più atto a riposo e a pace che a guerra." "La raunata gente non consigliò". Il giorno finì: e non si concluse nulla, e la gente stanca se ne andò, e ciascuno pensò a se stesso. E Dino cosa facea? Dava udienza.

I Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con buone parole.

Li Spini diceano alli Scali:

"- Deh! Perché facciamo noi così? Noi siamo pure amici e parenti e tutti guelfi; noi non abbiamo altra intenzione che di levarci la catena di collo, che tiene il popolo a voi e a noi. E saremo maggiori che noi non siamo. Mercè per Dio, siamo una cosa, come noi dovemo essere. - ... Quelli che riceveano tali parole, s'ammollavano nel cuore, e i loro seguaci invilirono".

I ghibellini, credendosi abbandonati, si smarrirono, e gli sbanditi si avvicinavano alla città. Come farli entrare? Carlo primonstava presso la Signoria, perché si desse a lui la guardia della città e delle porte: che farebbe de' malfattori aspra giustizia. E sotto questo nascondea la sua malizia, nota l'arguto Dino. Ma l'arguto Dino gli dà la guardia delle porte d'Oltrarno! Bisogna proprio sentir lui:

"Le chiavi gli furono negate, e le porte di Oltrarno gli furono raccomandate, e levati ne furono i fiorentini, e furonvi messi i franciosi. E il cancelliere e il manescalco di messer Carlo giurarono nelle mani a me Dino ricevente per lo comune.... E mai credetti che un tanto signore e della casa reale di Francia rompesse la sua fede: perché passò piccola parte della seguente notte che per la porta che noi gli demmo in guardia, die' l'entrata a ... molti ... sbanditi."

Fatta la breccia, entrano gli altri. E i signori, venuta meno tutta la loro speranza, "deliberarono, quando i villani fossero venuti in loro soccorso, prendere la difesa." Che erà quel prender tempo e non risolversi degli animi deboli. Furono vinti senza combattere. Tutti si gettarono là dov'era la forza:

"I malvagi villani gli abbandonarono... e i ... famigli li tradirono.... Molti soldati si volsono a servire i loro avversari. Il podestà ... andava procurando in aiuto di messer Carlo."

Carlo manda i suoi a' priori, "per occupare il giorno e il loro proponimento con lunghe parole". Giuravano che il loro signore si tenea tradito", e che farebbe la vendetta grande. - Tenete per fermo che se il nostro signore non ha cuore di vendicare il misfatto a vostro modo, fateci levare la testa. - E ora che scrive, Dino aggiunge: "E non giurò messer Carlo primol vero, perché [Corso Donati] di sua saputa venne".

Carlo è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare il comune, ma ad un patto, che si dieno a lui in custodia i più potenti uomini delle due parti. E Dino consente.

"I Neri vi andarono con fidanza, i Bianchi con temenza. Messer Carlo li fece guardare; i Neri lasciò partire, ma i Bianchi ritenne presi quella notte senza paglia e senza materasse, come uomini micidiali."

Qui Dino non ne può più e prorompe:

"O buono re Luigi, che tanto temesti Iddio, ov'è la fede della real casa di Francia, caduta per mal consiglio, non temendo vergogna? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta corona fatto non soldato, ma assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua fede, e falsando il nome della real casa di Francia!"

L'indignazione è uguale alla maraviglia del buon uomo. Come pensare che il sangue di san Luigi, un Reale di Francia, fosse spergiuro e assassino?

Quando non ci era più il rimedio, si corse al rimedio. Dino fa sonare la campana grossa, che era un chiamare alle armi. Ma nessuno uscì: "La gente sbigottita non trasse di casa i Cerchi. Non uscì uomo a cavallo, nè a pie armato".

Anche il cielo vi si mescola. Apparisce una croce vermiglia sopra il palagio de' priori:

"Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemmo comprendere che Dio era fortemente contro alla nostra città crucciato."

La città per sei giorni fu messa a ruba. In pochi tocchi ti sta innanzi il quadro:

"Gli uomini che temeano i loro avversari si nascondeano per le case de' loro amici. L'uno nimico offendea l'altro; le case si cominciavano ad ardere; le ruberie si faceano, e fuggivansi gli arnesi alle case degl'impotenti. I Neri potenti domandavano danaro a' Bianchi; maritavansi le fanciulle a forza; uccideansi uomini; e quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: - Che fuoco è quello? - Eragli risposto che era una capanna, quando era un ricco palazzo."

I priori, multiplicando il mal fare, e non avendo rimedio, lasciarono il priorato. E venne al governo la parte nera.

Dino fu il Pier Soderini di quel tempo, e fu a se stesso il suo Machiavelli. Nessuno può dipingerlo meglio che non fa egli medesimo.

In questa maravigliosa cronaca non ci è una parola di più. Tutto è azione, che corre senza posa sino allo scioglimento. Ma è azione, dove paion fuori caratteri e passioni. Un motto, un tratto è un carattere. Carlo, dopo di aver tratto da' fiorentini molti danari, va a Roma e chiede danari a Bonifazio. - Ma io ti ho mandato alla fonte dell'oro, - risponde il papa. È una risposta, che è un ritratto dell'uno e dell'altro. I discorsi sono sostanziosi, incisivi, non meno pittoreschi: vedi personaggi vivi, con la loro natura e i loro intendimenti, e fanno più effetto che non le studiate e classiche orazioni venute poi. Uomo d'impressione più che di pensiero, Dino intuisce uomini e cose a prima vista, e ne rende la fisonomia che non la puoi dimenticare. Di Bonifazio ottavo dice:

"Fu di grande ardire e alto ingegno, e guidava la Chiesa a suo modo, e abbassava chi non li consentia."

Di Corso Donati fa questo magnifico ritratto:

"Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore; adorno di belli costumi, sottile d'ingegno, coll'animo sempre intento a mal fare (col quale molti masnadieri si raunavano, e gran sèguito avea) molte arsioni e molte ruberie fece fare;... molto avere guadagnò e in grande altezza salì. Costui fu messer Corso Donati che per sua superbia fu chiamato il barone, che, quando passava per la terra, molti gridavano: - Viva il barone. - E parea la terra sua. La vanagloria il guidava e molti servigi facea."

La stessa sicurezza è nella rappresentazione delle cose. Rapido, arido, tutto fatti, che balzan fuori coloriti dalle sue vivaci impressioni, dalla sua maraviglia, dalla sua indignazione. Una cosa soprattutto lo colpisce, che "molte lingue si cambiarono in pochi giorni". Non vi si sa rassegnare, e li chiama ad uno ad uno, e ricorda loro quello che diceano e quello che erano. Il mutarsi dell'animo secondo gli eventi non gli potea entrare:

"Donato Alberti, ... dove sono le tue arroganze, che ti nascondesti in una vile cucina? O messer Lapo Salterelli, minacciatore e battitore de' rettori che non ti serviano nelle tue quistioni, ove t'armasti? In casa i Pulci, stando nascoso, ... O messer Manetto Scali, che volevi esser tenuto sì grande e temuto, ove prendesti le armi? ... O voi popolani, che desideravate gli ufici e succiavate gli onori, e occupavate i palagi de' rettori, ove fu la vostra difesa? Nelle menzogne, simulando e dissimulando, biasimando gli amici e lodando i nemici, solamente per campare. Adunque piangete sopra voi e la vostra città."

I soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e ingenerose sono da lui rappresentati con lo stesso accento di maraviglia, come di cose non viste mai, e svegliano nel suo animo onesto una indignazione eloquente. Ed è da quei sentimenti che è uscito questo capolavoro di descrizione:

"Molti nelle pie opere divennero grandi, i quali avanti nominati non erano, e nelle crudeli opere regnando, cacciarono molti cittadini e feciongli rubelli, e sbandeggiarono nell'avere e nella persona. Molte magioni guastarono, e molti ne puniano, secondo che tra loro era ordinato e scritto. Niuno ne campò che non fosse punito. Non valse parentado nè amistà; nè pena si potea minuire, nè cambiare a coloro a cui determinate erano. Nuovi matrimoni niente valsero, ciascuno amico divenne nimico; i fratelli abbandonavano l'un l'altro, il figliuolo il padre, ogni amore, ogni umanità si spense. ... Patto, pietà nè mercè in niuno mai si trovò. Chi più dicea: - Muoiano, muoiano i traditori -, colui era il maggiore."

Tra' proscritti fu Dante. Condannato in contumacia, non rivide più la sua patria. Ira, vendetta, dolore, disdegno, ansietà pubbliche e private, tutte le passioni che possono covare nel petto di un uomo, lo accompagnarono nell'esilio. Chi ha visto l'indignazione di Dino, può misurare quella di Dante.

Il priorato fu il principio della sua rovina, com'egli dice, ma fu anche il principio della sua gloria. Non era uomo politico; mancavagli flessibilità e arte di vita; era tutto un pezzo, come Dino. Priore, volle procurare una concordia impossibile, e non riuscì che a farsi ingannare da' Neri in Firenze e da Bonifazio in Roma. Esule, non valse a mantenere quella preminenza che era debita al suo ingegno e alla sua virtù, si lasciò soverchiare da' più audaci e arrischiati, e non potendo impedire e non volendo accettare molti disegni, si segregò e si fece parte per se stesso. Toltosi alle faccende pubbliche, ripiegatosi in sè, sviluppò tutte le sue forze intellettive e poetiche.

Dopo la morte di Beatrice erasi dato con tale ardore allo studio che la vista ne fu debilitata. Finisce la Vita Nuova con la speranza "di dire di lei quello che non fu mai detto di alcuna". E fece di questo suo primo e solo amore "la bellissima e onestissima figlia dell'Imperatore dell'universo, alla quale Pitagora pose nome Filosofia". Frutto di questi nuovi studi furono le sue canzoni allegoriche e scientifiche.

Tra questi studi nacque la seconda Beatrice, luce spirituale, unità ideale, l'amore che congiunge insieme intelletto e atto, scienza e vita. Intelletto, amore, atto, era questa la trinità, che fu il suo secondo amore, la sua filosofia. Beatrice divenne un simbolo, e la poesia vanì nella scienza.

Quel mondo lirico, che a noi pare troppo astratto, parve poco spirituale ai contemporanei, che chiamavano "sensuale" quel primo amore di Dante, e poco intendevano questo suo secondo amore. E Dante, per cessare da sè l'infamia e per mostrare la dottrina "nascosa sotto figura di allegoria", volle illustrare e comentare le sue canzoni egli medesimo.

Era dottissimo. Teologia, filosofia, storia, mitologia, giurisprudenza, astronomia, fisica, matematica, rettorica, poetica, di tutto lo scibile avea notizia e non superficiale: perché di tutto parlò con chiarezza e con padronanza della materia. Il disegno gli si allargò: al poeta tenne dietro lo scienziato; e pensò di chiudere in quattordici trattati, quante erano le canzoni, tutta la scienza nella sua applicazione alla vita morale. Un lavoro simile, che Brunetto chiamò Tesoro, e altri chiamavano Fiore o Giardino, egli chiamò Convito, quasi mensa dov'è imbandito "il pane degli angeli", il cibo della sapienza. Brunetto avea scritto il Tesoro in francese, gli altri trattavano la scienza in latino. La prosa volgare era tenuta poco acconcia a questa materia, massime dopo l'infelice versione dell'Etica di Aristotile, fatta da un tal Taddeo, celebre medico, nominato "l'ippocratista". Bisogna vedere quante sottili ragioni adduce Dante per scusarsi di scrivere in volgare. Celebra il latino come "perpetuo e non corruttibile", e perché "molte cose manifesta concepute nella mente, che il volgare non può", e perché "il ... volgare seguita uso e il latino arte"; onde il latino è "più bello, più virtuoso e più nobile". Ma appunto per questo il comento latino non sarebbe stato "suggetto alle canzoni" scritte in volgare, ma "sovrano", e il comento per sua natura è servo e non signore, e dee ubbidire e non comandare. Ora il latino non può ubbidire, perché "comandatore" e sovrano del volgare. Oltreché, come può il latino comentare il volgare, non conoscendo il volgare? E che il latino non è conoscente del volgare, si vede: "ché uno abituato di latino non distingue, s'egli è d'Italia, lo volgare provenzale dal tedesco nè il tedesco lo volgare italico o provenzale ". Ecco le opinioni, le forme e le sottigliezze della scuola. Questa novità di scrivere di scienza in volgare, che è come dare a' convitati "pane di biado e non di formento", gli pare così grande che a difendersene spende otto capitoli, modello di barbarie scolastica. Lasciando stare le sottigliezze, la sostanza è questa, ch'egli usa "il volgare di sì", perché loquela propria e "delli suoi generanti", e suo "introducitore" nello studio del latino, e perciò "nella via di scienza, ch'è ultima perfezione". Scrisse in volgare le rime, il volgare usò "deliberando, interpretando e quistionando"; dal principio della vita ebbe con esso "benivolenza e conversazione"; il volgare è l'amico suo, dal quale non si sa dividere. Coloro "fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza", che per "iscusarsi del non dire o dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio". La plebe, o come dice egli, le "popolari persone" cadono "nella fossa" di questa falsa opinione per poca discrezione: "per che incontra che molte volte gridano: - Viva la loro morte - e: - Muoia la loro vita -, purché alcuno cominci", e sono da chiamare "pecore, e non uomini". Gli altri vi caggiono per vanità o per vanagloria, o per invidia o per pusillanimità. Questo disamare lo volgare proprio e pregiare l'altrui, gli pare un adulterio, conchiudendo con queste sdegnose parole: "E tutti questi cotali sono gli abbominevoli cattivi d'Italia, che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri". E però egli scrive questo comento in volgare, per fargli avere "in atto e palese quella bontade che ha in potere e occulto", mostrando che la sua virtù si manifesta anche in prosa, senza le accidentali adornezze della rima e del ritmo, come donna "bella per natural bellezza e non per gli adornamenti dell'azzimare e delle vestimenta", e che altissimi e novissimi concetti convenientemente, sufficientemente e acconciamente, "quasi come per esso latino", vi si esprimono. E finisce con queste profetiche parole: "Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà, ove l'usato tramonterà".

Tanta veemenza nell'accusare, tanto ardore nel magnificare può fare intendere quanto radicata e sparsa era l'opinione degl'infiniti "ciechi", com'egli li chiama, che tenevano il volgare inetto alla prosa. E non ottenne l'intento. Il latino continuò a prevalere: egli medesimo, lasciato a mezza via il Convito, trattò in latino la rettorica e la politica, che insieme con l'etica era la materia ordinaria dei trattati scientifici.

Il libro De vulgari eloquio non è un fior di rettorica, quale si costumava allora, un accozzamento di regole astratte cavate dagli antichi, ma è vera critica applicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati. La base di tutto l'edifizio è la lingua nobile, aulica, cortigiana, illustre, che è dappertutto e non è in alcuna parte, di cui ha voluto dare esempio nel Convito. Questo ideale parlare italico è illustre, in quanto si scosta dagli elementi locali, ove prendono forma i dialetti e si accosta alla maestà e gravità del latino, la lingua modello. Voleva egli far del volgare quello che era il latino, non la lingua delle persone popolari, ma la lingua perpetua e incorruttibile degli uomini colti. Sogno assai simile a quello di una lingua universale, fondata con procedimenti artificiali della scienza. Scegliere il meglio di qua e di là e far cosa una e perfetta, sembra cosa facile e assai conforme alla logica, ma è contro natura. Le lingue, come le nazioni, vanno all'unità per processi lenti e storici; e non per fusioni preconcette, ma per graduale assorbimento e conquista degli elementi inferiori. Il ghibellino che dispregiava i dialetti comunali e voleva un parlare comune italico, di cui abbozzava l'immagine, ti rivelava già lo scrittore della Monarchia.

Il trattato, De Monarchia, è diviso in tre libri. Nel primo dimostra la perfetta forma di governo essere la monarchia; nel secondo prova questa perfezione essere incarnata nell'impero romano, sospeso, non cessato, perché preordinato da Dio; nel terzo stabilisce le relazioni tra l'impero e il sacerdozio, l'unico imperatore e l'unico papa.

L'eccellenza della monarchia è fondata sull'unità di Dio. Uno Dio, uno imperatore. Le oligarchie e le democrazie sono "polizie oblique", governi "per accidente", reggimenti difettivi. Fin qui tutti erano d'accordo, guelfi e ghibellini. Non ci erano due filosofie: le premesse erano comuni ai due partiti.

E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spirito e il corpo, e la preminenza di quello, base della filosofia cristiana. E ne inferivano che nella società sono due poteri, lo spirituale e il temporale, il papa e l'imperatore. Il contrasto era tutto nelle conseguenze.

Se lo spirito è superiore al corpo, dunque, conchiudeva Bonifazio ottavo, il papa è superiore all'imperatore. "Il potere spirituale - dic'egli - ha il diritto d'instituire il potere temporale e di giudicarlo, se non è buono. E chi resiste, resiste all'ordine stesso di Dio, a meno ch'egli non immagini, come i manichei, due princìpi, Ciò che sentenziamo errore ed eresia. Adunque ogni uomo dee essere sottoposto al pontefice romano, e noi dichiariamo che questa sottomissione è necessaria per la salute dell'anima".

Filosofia chiara, semplice, popolare, irresistibile per il carattere indiscusso delle premesse consentite da tutti e per l'evidenza delle conseguenze. Quando lo spirito era il sostanziale e il corpo in se stesso era il peccato, e non valea se non come apparenza o organo dello spirito, cos'altro potevano essere i re e gl'imperatori, che erano il potere temporale, se non gl'investiti dal papa, gli esecutori della sua volontà? I guelfi, che, salve le franchigie comunali, ammettevano premesse e conseguenze, erano detti "la parte di santa Chiesa".

Dante ammetteva le premesse, e per fuggire alla conseguenza suppone che spirito e materia fossero ciascuno con sua vita propria, senza ingerenza nell'altro, e da questa ipotesi deduce l'indipendenza de' due poteri, amendue "organi di Dio" sulla terra, di diritto divino, con gli stessi privilegi, "due soli", che indirizzano l'uomo, l'uno per la via di Dio, l'altro per la via del mondo, l'uno per la celeste, l'altro per la terrena felicità. Perciò il papa non può unire i due reggimenti in sè, congiungere il pastorale e la spada; anzi, come vero servo di Dio e immagine di Cristo, dee dispregiare i beni e le cure di questo mondo, e lasciare a Cesare ciò che è di Cesare. L'imperatore dal suo canto dee usar riverenza al papa, appunto per la preminenza dello spirito sul corpo; e poiché il popolo è corrotto e usurpatore, e la società è viziosa e anarchica, il suo uffizio è di ridurre il mondo a giustizia e concordia, ristaurando l'impero della legge. Nè è a temere che sia tiranno, perché nella stessa sua onnipotenza troverà il freno a se stesso: perciò rispetterà le franchigie de' comuni e l'indipendenza delle nazioni. Questa era l'utopia dantesca o piuttosto ghibellina. Dante ne ha fatto un sistema e ne è stato il filosofo.

Scendendo alle applicazioni, Dante mostra nel secondo libro che la monarchia romana fu di tutte perfettissima. La sua storia risponde alle tre età dell'uomo. Nell'infanzia ebbe i re: adulta, e rettasi a popolo, con geste maravigliose, una serie di miracoli che attestano la sua missione provvidenziale, si apparecchiò alla età virile, ordinandosi a monarchia sotto Augusto, che san Tommaso chiama vicario di Cristo, e che Dante, seguendo la tradizione virgiliana, dice discendente da Enea fondatore dell'impero, per disegno divino. E fu a quel tempo che nacque Cristo, e "fu suddito dell'impero", e compì l'opera della redenzione delle anime, mentre Augusto componeva il mondo in perfetta pace.

Da queste premesse storiche Dante conchiude che Roma per dritto divino dee essere la capitale del mondo, e che giustizia e pace non può venire in terra se non con la ristaurazione dell'impero romano, "la monarchia predestinata" di cui la più bella parte il giardino, era l'Italia.

In apparenza, questo era un ritorno al passato, ma ci era in germe tutto l'avvenire: ci era l'affrancamento del laicato e l'avviamento a più larghe unità. I guelfi si tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al di là del comune vedi la nazione, e al di là della nazione l'umanità, la confederazione delle nazioni. Era un'utopia che segnava la via della storia.

Guelfi e ghibellini aveano comune la persuasione che la società era corrotta e disordinata, e chiedevano il paciere. La selva, immagine della corruzione, è un punto di partenza comune a Brunetto guelfo e a Dante ghibellino. I guelfi chiamavano paciere nelle loro discordie un legato del papa, come Carlo di Valois, "che giostrò con la lancia di Giuda", come dice Dante. I ghibellini invocavano l'imperatore. E credesi che Dante abbia scritto questo trattato per agevolare la via all'imperatore Arrigo settimo di Lucemburgo, sceso a pacificare l'Italia e morto al principio dell'impresa, glorificato da Dante, celebrato da Mussato, lacrimato da Cino. Non avevano ancora imparato, e guelfi e ghibellini, che chiamar pacieri è mettersi a discrezione altrui, e che metter l'ordine e salvar la società dalle fazioni è antico pretesto di tutt'i conquistatori.

Dante scrisse lettere anche in latino. Una ne scrisse appunto ad Arrigo nella sua venuta. Raccogliendo insieme le sue opere latine, di cui la più originale è quella De vulgari eloquio, e unendovi il Convito, si può avere un giusto concetto del suo lavoro intellettuale.

Era uomo dottissimo, ma non era un filosofo. Nè la filosofia fu la sua vocazione, lo scopo a cui volgesse tutte le forze dello spirito. Fu per lui un dato, un punto di partenza. L'accettò come gli veniva dalla scuola, e ne acquistò una piena notizia. Seppe tutto, ma in nessuna cosa lasciò un'orma del suo pensiero, posto il suo studio meno in esaminare che in imparare. Accoglie qualsiasi opinione anche più assurda, e gran parte degli errori e de' pregiudizi di quel tempo. Cita con uguale riverenza Cicerone e Boezio, Livio e Paolo Orosio, scrittori pagani e cristiani. La citazione è un argomento. Il suo filosofare ha i difetti dell'età. Dimostra tutto, anche quello che non è controverso; dà pari importanza a tutte le quistioni. Ammassa argomenti di ogni qualità, anche i più puerili; spesso non vede la sostanza della quistione, e si perde in minuterie e sottigliezze. Aggiungi il gergo scolastico e le infinite distinzioni. Pure, se fra tanti viottoli ti regge ire sino alla fine, troverai nella sua Monarchia un'ampiezza ed unità di disegno ed una concordanza di parti, che ti fa indovinare il grande architetto dell'altro mondo.

I difetti delle opere latine sono comuni al Convito, e gl'intralciano lo stile, e gl'impediscono quell'andamento naturale e piano del discorso, che potea renderlo accessibile agl'illetterati, a' quali era destinato. La sua teoria della lingua illustre lo allontana da quell'andare soave e semplice della prosa volgare, e quando gli altri volgarizzano il latino, egli latinizza il volgare, cercando nobiltà e maestà nelle perifrasi, ne' contorcimenti e nelle inversioni. Usa una lingua ibrida, non italiana e non latina, spogliata di tutte le movenze e attitudini vivaci del dialetto, e lontana da quella dignità e misura, che ammira nel latino e a cui tende con visibile e infelice sforzo. Se la natura gli avesse concesso un più squisito senso artistico, avrebbe forse potuto essere fondatore della prosa. Ma gli manca la grazia, e senti la rozzezza nello sforzo della eleganza. Salvo qualche raro intervallo, che la passione lo scalda e lo fa eloquente, la sua prosa, come la sua lirica, fa desiderare l'artista.

Vocazione di Dante non fu la filosofia e non fu la prosa. Quello ch'egli cercava, non potè realizzarlo come scienza e come prosa.

Che cerchi? - Gli domandò un frate. Rispose: - Pace. - E questo cercavano tutt'i contemporanei. Pace era concordia del regno terrestre col regno celeste, dell'anima con Dio, il regno di Dio sulla terra. "Adveniat regnum tuum." Pace vera quaggiù non può essere; vera pace è in Dio, nel mondo celeste; Beatrice morendo parea che dicesse: "Io sono in pace". La vita è una prova, un tirocinio, per accostarsi quanto si può all'ideale celeste e meritarsi l'eterna pace.

Lo scopo della vita è la salvazione dell'anima, la pace dell'anima nel mondo celeste. Vivere è morire alla terra per vivere in cielo. La vita è la storia dell'anima, è un "mistero". Uscita pura dalle mani di Dio "che la vagheggia", è sottoposta quaggiù al male e al dolore, e non può tornare nella patria che purificata di ogni macula terrestre. Per giungere a pace bisogna passare per tre gradi, personificati ne' tre esseri, Umano, Spoglia e Rinnova, e a' quali rispondono i tre mondi, inferno, purgatorio e paradiso. Il "mistero" o la storia finisce al primo grado, quando l'anima sopraffatta dall, Umano e vinta nella sua battaglia col demonio viene in potere di questo: è la tragedia dell'anima, la tragedia di Fausto, prima che Goethe, ispirato da Dante, lo avesse riscattato. Ma quando l'anima vince le tentazioni del demonio, e si spoglia e si purga dell'Umano, hai la sua glorificazione nell'eterna pace: hai la "commedia" dell'anima. Questo è il mistero, ora tragedia, ora commedia, secondo che prevale l'umano o il divino, il terrestre o il celeste, che giace in fondo a tutte le rappresentazioni e a tutte le leggende di quell'età. Messo in iscena, era detto "rappresentazione": narrato. Era "leggenda" o "vita", esposto in figura era "allegoria", rappresentato in modo diretto e immediato, era "visione"; anzi le due forme si compenetravano, e spesso l'allegoria era una visione, e la visione era allegorica. Allegorie, visioni, leggende, rappresentazioni erano diverse forme di questo mistero dell'anima, del quale i teologi erano i filosofi, e i predicatori erano gli oratori, che aggiungevano spesso alla dottrina l'esempio, qualche leggenda o visione, com'è nello Specchio di vera penitenza. Il mistero dell'anima era in fondo tutta una metafisica religiosa, che comprendeva i più delicati e sostanziali problemi della vita, e produceva una civiltà a sè conforme. Ci entrava l'individuo e la società, la filosofia e la letteratura.

La letteratura volgare in senso prettamente religioso si stende per due secoli da Francesco di Assisi e Iacopone sino a Caterina. L'Allegoria dell'anima, la rappresentazione del Giovane monaco, l'Introduzione alle virtù, la Commedia dell'anima sono in forma letteraria la teoria di questo mistero, che nelle lettere di Caterina raggiunge la sua perfezione dottrinale, ed acquista la sua individuazione o realtà storica ne' Fioretti, nelle leggende e nelle visioni del Cavalca e del Passavanti.

Ma questa letteratura era senza eco nella classe colta da cui esce l'impulso della vita intellettuale. Dante spregiava il latino della Bibbia, come privo di dolcezza e di armonia. Quello scrivere così alla buona e come si parla era tenuto barbarie e rozzezza. Vagheggiavano una forma di dire illustre e nobile, prossima alla maestà del latino, della quale Dante die' nel Convito un saggio poco felice. Nè potea piacere quella semplicità di ragionamento con tanta scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano dalle scuole con tanta filosofia in capo, con tanta erudizione sacra e profana. Ma se aveano in poco conto quella letteratura, giudicata povera e rozza, non era diverso il concetto che essi avevano della vita. I teologi filosofavano e i filosofi teologizzavano. La rivelazione rimaneva integra nelle sue basi essenziali, ammesse come assiomi indiscutibili. Tali erano l'unità e personalità di Dio, l'immortalità dello spirito e lo scopo della vita oltre terreno.

Ma se il concetto era lo stesso, la materia era più ampia, abbracciando la coltura, oltre la Bibbia e i santi Padri, quanto del mondo antico era noto, e la forma era più libera, paganizzando sotto lo scudo dell'allegoria e voltando il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e Platone.

Il regno di Dio chiamavano regno della filosofia. E realizzare il regno di Dio era conformare il mondo a' dettati della filosofia unificare intelletto e atto. Il mediatore era l'Amore, principio delle cose divine e umane, e non l'amore sensuale, ch'era peccato, ma un amore intellettuale, l'amore della filosofia. Il frutto dell'amore è la sapienza, che non è puro intelletto, ma intelletto e atto congiunti, la virtù. Il regno di Dio in terra era dunque il regno della virtù, o come dicevano, della giustizia e della pace. A realizzare questo regno erano istrumenti i due Soli, i due organi di Dio, il papa e l'imperatore. La politica era l'arte di realizzare questo regno della giustizia e della pace, rendendo gli uomini virtuosi e felici. Il criterio politico era puramente etico, come s'è visto in Albertano giudice, in Egidio Colonna, in Mussato, in Dino Compagni. All'effettuazione di questo regno etico concorreva la tradizione virgiliana; perché Virgilio era un testo non meno rispettabile che la Bibbia. E si attendeva la monarchia predestinata da Dio, la ristorazione dell'impero romano.

In questi due secoli abbiamo due letterature quasi parallele, e persistenti l'una accanto all'altra: una schiettamente religiosa, chiusa nella vita contemplativa, circoscritta alla Bibbia e a' santi Padri, e che ha per risultato inni e cantici e laude, rappresentazioni, leggende, visioni, e l'altra che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a sistema filosofico, e abbraccia i vari aspetti della vita, e dà per risultato somme, enciclopedie, trattati, cronache e storie, sonetti e canzoni. Tra queste due letterature erra la novella e il romanzo, eco della cavalleria, rimasti senza seguito e senza sviluppo, quasi cosa profana e frivola.

Gli uomini istrutti si studiavano di render popolare la cultura, specialmente nella sua parte più accessibile e pratica, l'etica e la morale. Indi le tante versioni e raccolte di precetti etici sotto nome di Fiori, Giardini, Tesori, Ammaestramenti. Un tentativo di questo genere fu il Tesoretto.

Nella prima parte della lirica dantesca hai la storia ideale della santa, nella sua purezza soppresso il demonio e le tentazioni della carne. È il mistero dell'anima così come è rappresentato nella Commedia dell'anima. L'anima, che uscita pura dalle mani di Dio, dopo breve pellegrinaggio ritorna in cielo bellezza spirituale, o luce intellettuale, è Beatrice; e Beatrice è la santa della gente colta, è la donna platonica e innominata de' poeti, battezzata e santificata.

Nella seconda parte Beatrice è la filosofia, che riceve la sua esplicazione dottrinale nelle Canzoni e nel Convito. La poesia va a metter capo nella pura scienza, nell'esposizione scolastica di un mondo morale, dell'etica.

La letteratura popolare va a finire nelle lettere dottrinali e monotone di Caterina: il suo difetto ingenito è l'astrazione dell'ascetismo. La letteratura dotta va a finire nelle sottigliezze scolastiche del Convito: il suo difetto intrinseco è l'astrazione della scienza. Tutte e due hanno una malattia comune, l'astrazione, e la sua conseguenza letteraria, l'allegoria.

Ma il mondo di Dante non potea rimaner chiuso in questi limiti, o piuttosto non era questo il suo mondo naturale e geniale, conforme alle qualità del suo spirito e del suo genio, e ci sta a disagio. La sua forza non è l'ardore della ricerca e della investigazione, che è il genio degli spiriti speculativi. La scienza è per lui un dogma: il cervello rimane passivo in quelle scolastiche esposizioni. Avea troppa immaginazione, perché potesse rimaner nell'astratto, e studia più a figurarlo e colorirlo che a discuterlo e interrogarlo. La fantasia creatrice, il vivo sentimento della realtà, le passioni ardenti del patriota disingannato e offeso, le ansietà della vita pubblica e privata, non poteano avere appagamento in quella regione astratta della scienza, che pur gli era tanto cara. Sentiva il bisogno meno di esporre che di realizzare. E volle realizzare questo regno della scienza o regno di Dio che tutti cercavano, farne un mondo vivente.

Il mondo è una selva oscura, corrotto dal vizio e dall'ignoranza. Rimedio è la scienza, secondo i cui princìpi dovrebb'esser conformato. La scienza è il mondo ideale, non qual è, ma quale dee essere. Questo ideale si trova realizzato nell'altra vita, nel regno di Dio, conforme alla verità e alla giustizia. Perciò ad uscir dalla selva non ci è che una via, la contemplazione e la visione dell'altra vita. Per questa via l'anima, superate le battaglie del senso e purificatasi, ha la sua pace, la sua eterna commedia, la beatitudine.

Da questo concetto semplice e popolare uscì la contemplazione o visione, detta la Commedia, rappresentazione allegorica del regno di Dio, il "mistero dell'anima" o la "Commedia dell'anima."









VII - LA COMMEDIA

Chi mi ha seguito vede che la "Divina Commedia" non è un concetto nuovo, nè originale, nè straordinario, sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo maravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati, tesori, giardini, sonetti e canzoni. L'Allegoria dell'anima e la Commedia dell'anima sono gli schemi, le categorie, i lineamenti generali di questo concetto.

Nel Convito la sostanza è l'etica, che Dante cerca di rendere accessibile agl'illetterati, esponendola in prosa volgare. Qui il problema è rovesciato. La sostanza sono le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al mistero dell'anima, il concetto di tutt'i misteri e di tutte le leggende, ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel tempo. Con questa felice ispirazione, pigliando a base della coltura le tradizioni e le forme popolari, riunisce le due letterature, che si contendevano il campo, intorno al comune concetto che le ispirava, il mistero dell'anima. La rappresentazione e la leggenda esce dalla sua rozza volgarità e si alza a' più alti concepimenti della scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa mistero e leggenda. Indi l'immensa popolarità di questo libro, che gl'illetterati accettavano nel senso letterale e i dotti comentavano come un libro di scienza, come la Somma di san Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi quel medesimo che sentiva nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni, nè è maraviglia che qualcuno guardando Dante con quella faccia pensosa e come alienata, dicesse: - Costui par veramente uscito ora dall'inferno. - Gli eruditi si affannavano a cercare il senso de' versi strani, e il Boccaccio iniziava quella serie di comenti che spesso in luogo di squarciare il velo lo fanno più denso.

In effetti la Divina Commedia è una visione dell'altro mondo allegorica. Cristianamente, la visione e la contemplazione dell'altra vita è il dovere del credente, la perfezione. Il santo vive in ispirito nell'altro mondo; le sue estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita, a cui sospira. Dante accetta questa base ascetica, popolarissima: contemplare e vedere l'altro mondo è la via della salvazione. Per campare dalla selva del vizio e dell'ignoranza, egli si getta alla vita contemplativa, vede in ispirito l'altro mondo e narra quello che vede. Questo è il motivo ordinario di tutte le visioni, è la storia di tutt'i santi, è il tema di tutt'i predicatori, è la lettera della Commedia, visione dell'altro mondo, come via a salute. Ma la visione è allegoria. L'altro mondo è allegoria e immagine di questo mondo, è in fondo la storia o il mistero dell'anima ne' suoi tre stati, detti nell'Allegoria dell'anima Umano, Spoglia, Rinnova, che rispondono a' tre mondi, Inferno, Purgatorio e Paradiso. È l'anima intenebrata dal senso, nello stato puramente umano, che spogliandosi e mondandosi della carne si rinnova, ritorna pura e divina. Questa allegoria era popolare e comune non meno che la lettera. Ciascuno vedeva un po' l'altro mondo con l'occhio di questo mondo, con le sue passioni e interessi. I predicatori, soprattutto nella descrizione delle pene infernali, cercavano immagini delle passioni terrene. Il mistero dell'anima era la base di tutte le invenzioni, la leggenda delle leggende. L'uomo, caduto nell'errore e nella miseria, che finisce o vendendo l'anima al demonio o purgandosi e salvandosi, era il fondamento di tutte le storie popolari, come s'è visto nell'Introduzione alle virtù e nella Commedia dell'anima.

La Commedia dell'anima è l'anima uscita dalle mani di Dio pura, che in terra combatte le sue battaglie con la carne e col demonio, e vince assistita dalla grazia di Dio. Vizi e virtù combattono, come gli dei di Omero, intorno all'anima; le virtù vincono e l'anima è salva. Nell'Introduzione alle virtù è un giovane caduto in miseria, a cui apparisce confortatrice la Filosofia, sua maestra e signora, e gli mostra la battaglia de' Vizi e delle Virtù; e il giovane, spregiando i beni terrestri, si leva al cielo. La filosofia è anche la divina consolatrice di Boezio, così popolare, e di Dante, a cui dopo la morte di Beatrice apparve questa "nobilissima figlia dell'Imperatore dell'universo", facendolo suo amico e servo. Il vizio e l'ignoranza, la conversione per opera di Dio o della filosofia, la redenzione e beatificazione, visione di Dio e della scienza, era il luogo comune delle due letterature, de' semplici e degli uomini colti. E Dante fonde insieme le due forme, e tira nella sua allegoria filosofia e teologia, ragione e grazia, Dio e scienza, e fa un mondo armonico, assegnando a ciascuno il suo luogo. L'anima nell'inferno e nel purgatorio, non essendo uscita ancora dal terreno ha a guida il lume naturale, la ragione o la filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia di Dio: fatta libera e monda e leggiera, ha nel paradiso maestra la grazia o la teologia, luce intellettuale, che le mostra la scienza senza velo, o Dio nella sua essenza.

Perché l'altro mondo è allegorico, figura dell'anima nella sua storia, il poeta è sciolto da' vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo libero dell'immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane, adopera alla sua costruzione tutt'i materiali della scienza, sacra e profana, e le tradizioni e favole del mondo pagano, mescolando insieme Enea e san Paolo, Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane. Così ha realizzato quel mondo universale della coltura, tanto desiderato dalle classi colte e fino allora tentato invano, cristiano nel suo spirito e nella sua lettera, ma dove già penetra da tutte le parti il mondo antico. Mescolanza che in molti contemporanei pare strana e grottesca, legittimata qui dall'allegoria, che concede al poeta libertà di forme ch'egli creda più acconce a significare i suoi concetti. Il mondo pagano e la scienza profana sono qui materiali di costruzione, usati a edificare un tempio cristiano, a quel modo che colonne egizie e greche si veggono talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e figure de' nuovi tempi e delle nuove idee. Così a questa costruzione gigantesca prendon parte tutte le età e tutte le forme, fuse insieme e battezzate, penetrate da un solo concetto, il concetto cristiano.

L'ordito è semplicissimo: è la storia o mistero dell'anima nella sua espressione elementare, come si trova nella rappresentazione della Commedia dell'anima; e l'hai già tutta e chiara innanzi, fin dal primo canto. Dante nel giorno del Giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua possanza e il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui, si trova smarrito in una selva oscura, e sta per soggiacere all'assalto delle passioni, figurate nella lonza, il leone e la lupa, quando a camparlo dal luogo selvaggio esce Virgilio, e lo mena seco a contemplare l'inferno e il purgatorio, ove, confessati i suoi falli, guidato da Beatrice, sale in paradiso e di luce in luce giunge alla faccia di Dio. Allegoricamente, Dante è l'anima, Virgilio è la ragione, Beatrice è la grazia, e l'altro mondo è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e morale, è l'etica realizzata, questo mondo quale dee essere secondo i dettati della filosofia e della morale, il mondo della giustizia e della pace, il regno di Dio.

Dante è l'anima non solo come individuo, ma come essere collettivo, come società umana, o umanità. Come l'individuo, così la società è corrotta e discorde, e non può aver pace se non instaurando il regno della giustizia o della legge, riducendosi dall'arbitrio de' molti sotto unico moderatore. E qui entra la tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita da Dio, fondata da Augusto, discendente di Enea, e Roma per diritto divino capo del mondo. Questo concetto politico non è intruso e soprapposto, ma è, come si vede, lo stesso concetto etico, applicato all'individuo e alla società. È tale la medesimezza, che la stessa allegoria si può interpretare in un senso puramente etico, per rispetto all'individuo, e in un senso politico, per rispetto alla società. E non è perciò maraviglia che la stessa materia si presti con tanta docilità alle più diverse interpretazioni.

Se l'allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata libertà di forme, gli rende d'altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo la figura rappresentare il figurato, non può essere persona libera e indipendente, come richiede l'arte, ma semplice personificazione o segno d'idea, sicché non contenga se non i tratti soli che hanno relazione all'idea, a quel modo che il vero paragone non esprime di se stesso se non quello solo che sia immagine della cosa paragonata. L'allegoria dunque allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di un concetto a sè estrinseco. Hai due realtà distinte, l'una fuori dell'altra, l'una figura e adombramento dell'altra, perciò amendue incompiute e astratte. La figura, dovendo significare non se stessa, ma un altro, non ha niente d'organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di sè, com'è il grifone del Purgatorio, l'aquila del Paradiso, e il Lucifero, e Dante con le sette "P" incise sulla fronte.

La poesia non s'era ancora potuta sciogliere dall'allegoria. Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl'idoli, ma anche alla poesia, tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E verità era filosofia o storia: la verità poetica non era compresa. La poesia era stimata un tessuto di menzogne, e "poeta" e "mentitore", come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i versi erano chiamati, come dice san Girolamo, "cibo del diavolo". La poesia perciò non fu accettata se non come simbolo e veste del vero: l'allegoria fu una specie di salvacondotto, pel quale potè riapparire fra gli uomini. Erano detti "poeti solenni", a distinzione de' "popolari", i dotti che esprimevano in poesia la dottrina sotto figura, o in forma diretta. Dante definisce la poesia "banditrice del vero", sotto "il velame della favola ascoso", di modo che il lettore "sotto alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato parlare, trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti". La poesia è in sè una "bella menzogna", che non ha alcun valore, se non come figura del vero.

Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto l'influenza ne' nostri lirici, Dante lavora sopra idee astratte: trova una serie di concetti, e poi ti forma una serie corrispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte a questo processo, a correre al generale. Il campo ordinario della filosofia scolastica era l'Ente con tutte le altre generalità, e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti, anche i poeti, a cercare in ogni cosa la maggiore, la proposizione generale. Ora quel mondo di concetti è la maggiore dell'altro mondo.

Quali sieno questi concetti, io dirò quasi con le stesse parole di Dante.

La patria dell'anima è il cielo, e come dice Dante, discende in noi da altissimo abitacolo. Essa partecipa della natura divina.

L'anima, uscendo dalle mani di Dio, è "semplicetta", "sa nulla"; ma ha due facoltà innate, la ragione e l'appetito, "la virtù che consiglia", e l'esser "mobile ad ogni cosa che piace", l'esser "presta ad amare".

L'appetito (affetto, amore) la tira verso il bene. Ma nella sua ignoranza non sa discernere il bene, segue la sua falsa immagine e s'inganna. L'ignoranza genera l'errore, e l'errore genera il male.

Il male o il peccato è posto nella materia, nel piacere sensuale.

Il bene è posto nello spirito: il sommo Bene è Dio, puro spirito. L'uomo dunque, per esser felice, dee contrastare alla carne e accostarsi al sommo Bene, a Dio. A questo fine gli è stata data la ragione come consigliera: indi nasce il suo libero arbitrio e la moralità delle sue azioni.

La ragione per mezzo della filosofia ci dà la conoscenza del bene e del male. Lo studio della filosofia è perciò un dovere, è via al bene, alla moralità. La moralità è la "bellezza della filosofia": è l'etica, "regina delle scienze", "il primo cielo cristallino".

A filosofare è necessario amore. L'Amore (appetito) può esser sementa di bene e di male, secondo l'oggetto a cui si volge. Il falso amore è "appetito non cavalcato dalla ragione". Il vero amore è studio della filosofia, "unimento spirituale dell'anima con la cosa amata".

Filosofia è "amistanza a sapienza", amicizia dell'anima con la sapienza. Nelle nature inferiori l'amore è "sensibile dilettazione". Solo l'uomo, come "natura razionale, ha amore alla verità e alla virtù" (alla filosofia). Ciò è vera felicità, che per contemplazione della verità si acquista.

In questi concetti si trova il succo della morale antica. Già i filosofi pagani aveano mostrato la filosofia come unico porto fra le tempeste della vita: esser filosofo significava e significa anche oggi resistere alle passioni ed a' piaceri, vincer se stesso, serbare l'eguaglianza dell'animo nelle umane vicissitudini.

Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.

L'umanità per il peccato d'origine cadde in servitù dei sensi (del male o del peccato), e la ragione e l'amore non furono più sufficienti a salvarla. La ragione andava a tentoni e menava all'errore; "i filosofi andavan e non sapevan dove"; l'amore rimaso senza "rettore" divenne appetito sensuale. Era necessaria una redenzione soprannaturale. Dio si fece uomo e redense l'umanità, offrendosi vittima espiatoria per lei.

Mediante questo sacrificio, la ragione è stata avvalorata dalla fede, l'amore avvalorato dalla grazia, la filosofia è stata compiuta dalla teologia, la rivelazione.

Redenta l'umanità, ciascun uomo ha acquistato la virtù di salvarsi con l'aiuto di Dio. Guidato dalla ragione e dalla fede, fortificato dall'amore e dalla grazia, può affrancarsi da' sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio, al sommo Bene.

Questo cammino dalla materia o dal peccato sino allo spirito o al bene comprende tutto il circolo della morale o etica. La conoscenza della morale (naturale e rivelata, filosofia e teologia) è perciò necessaria a salute.

La morale è il "Nosce te ipsum", la conoscenza di se stesso. L'uomo si trova in questa vita in uno de' tre stati di cui tratta la morale, stato di peccato, stato di pentimento, stato di grazia.

L'altro mondo è figura della morale. L'inferno è figura del male o del vizio; il paradiso è figura del bene o della virtù; il purgatorio è il passaggio dall'uno all'altro stato mediante il pentimento e la penitenza. L'altro mondo è perciò figura de' diversi stati ne' quali l'uomo si trova in questa vita.

La rappresentazione dell'altro mondo è dunque un'etica applicata, una storia morale dell'uomo, com'egli la trova nella sua coscienza. Ciascuno ha dentro di sè il suo inferno e il suo paradiso.

Il viaggio nell'altro mondo è figura dell'anima nel suo cammino a redenzione. Ed è Dante stesso che fa questo viaggio.

Si trova in una selva oscura (stato d'ignoranza e di errore, la selva erronea del Convito), vede il dilettoso colle, principio e cagione di tutta gioia (la beatitudine), illuminato dal sole che mena dritto altrui per ogni calle (la scienza), ma tre fiere (la carne, gli appetiti sensuali) gli tengono il passo. L'uomo da sè non può salire il calle, non può giungere a salute: viene dunque il deus ex machina, l'aiuto soprannaturale. Si richiede non solo ragione, ma fede, non solo amore, ma grazia. Virgilio (ragione e amore) lo guida, insino a che, confesso e pentito e purgato d'ogni macula terrena, succede Beatrice (ragione sublimata a fede, amore sublimato a grazia). Con questo aiuto esce dallo stato d'ignoranza e di errore (la selva), e prende il cammino della scienza (l'altro mondo, il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima l'inferno (l'anima nello stato del male) e conosce il male nella sua natura, nelle sue specie, ne' suoi effetti (vedi canto XI). Entra allora in purgatorio (pentimento ed espiazione), dove ancor vive la memoria e l'istinto del male, e conosciuto il suo stato, pentito e mondo, diventa libero (dalla carne o dal peccato). Si trova allora ricondotto allo stato d'innocenza, nel quale era l'uomo avanti il peccato d'origine, e vede il paradiso terrestre e vede Beatrice (fede e grazia) Con la sua guida sale in paradiso (l'anima nello stato di beatitudine), di grado in grado si leva sino alla conoscenza e amore (contemplazione beatifica) di Dio, del sommo Bene, e in questa mistica congiunzione dell'umano e del divino si riposa (è beato).

La redenzione della società ha luogo nello stesso modo che degl'individui. La società serva della materia è anarchia, discordia sviata dall'ignoranza e dall'errore. E come l'uomo non può ire a pace, se non vinca la carne ed ubbidisca alla ragione, così la società non può ridursi a concordia, se non presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l'imperatore) che faccia regnare la legge (la ragione), guida e freno dell'appetito.

Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di quel tempo, metafisica, morale, politica, storia, fisica, astronomia, ecc

Il centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia è il problema dell'umana destinazione che si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie, il mistero dell'anima, pensiero della letteratura volgare sotto tutte le sue forme. Il problema è posto ed è sciolto cristianamente. L'umanità ha perduto ed ha racquistato il paradiso; questa storia epica di Milton è l'antecedente del problema. L'umanità ha racquistato il paradiso, cioè ciascun uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in che modo? Qual è la via di salvazione? La Commedia è la risposta a questa domanda, la soluzione del problema.

Il cristianesimo ne' primi tempi di fervore rispondea: - L'uomo si salva, imitando Cristo che ha salvato l'umanità, si salva con l'amore. Bisogna volger le spalle alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare. - Di qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante chiama eccellentissima e simile alla vita divina. Il che dovea menar dritto alla visione estatica, alla comunione tra l'anima e Dio, al misticismo, tanta parte della letteratura volgare. Gli uomini stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei monasteri, e nutrivano l'anima del pensiero della morte, della meditazione dell'altra vita; i santi Padri esortano spesso i fedeli a volger la mente all'altro mondo; anche oggi le prediche, i libri ascetici, i libri di preghiera non sono che un continuo "Memento mori"; è famoso il "Pensa, anima mia", frase formidabile, a cui il lettore vede già in aria venir dietro il giudizio universale e le fiamme dell'inferno. Se le cose di quaggiù sono caduche e "nulla promission rendono intera", se il significato serio della vita è nell'altro mondo, se là è il vero, è la realtà: l'Iliade, il poema della vita è la Commedia, la storia dell'altro mondo.

In quei primi tempi la scienza non è necessaria a salute, anzi i cristiani menavano vanto della loro ignoranza: "Beati pauperes spiritu". Avendo per avversari gli uomini più dotti del paganesimo, rispondevano ex abundantia cordis, con la sicurezza e l'eloquenza della fede, la loro lingua di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici, che spesso umiliava l'orgoglio di una scienza vòta e arida, non bastò più appresso. Aristotele dominava nelle scuole; la scienza si era introdotta nella teologia e ne avea fatto un cumulo di sottigliezze: lo stesso misticismo avea preso forme scientifiche, divenuto ascetismo, scienza della santificazione, in Agostino, Bernardo e Bonaventura. L'Amore dunque prende un contenuto, diviene scienza, e la loro unità è la filosofia, uso amoroso di sapienza.

La scienza però non contraddice, non annulla, anzi fortifica e dimostra lo stesso concetto della vita. Anche per Dante la santificazione è posta nella contemplazione; l'oggetto della contemplazione è Dio; la beatitudine è la visione di Dio; al sommo della scala de' beati mette i contemplanti, non gli operanti; ma per giungere all'unione con Dio non basta volere, bisogna sapere, ci vuole la sapienza che è amore e scienza, unità del pensiero e della vita. Perciò Virgilio non può esser ragione, che non sia anche amore, e Beatrice non può esser fede, che non sia anche grazia; Dante stesso conosce e vuole a un tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere. L'intelletto è in cima della scala: l'amore dee essere inteso, se ne dee avere intelletto.

Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza il problema si ripresenta, ma i termini sono mutati. Il punto di partenza non è più l'ignoranza, la selva oscura, ma la sazietà e vacuità della scienza, l'insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva. La sapiente Beatrice si trasforma nell'ignorante e ingenua Margherita; e Fausto non contempla ma opera; anzi il suo male è stato appunto la contemplazione, lo studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche onde della vita. Ma al tempo di san Tommaso la ragione entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto più confidente, quanto meno esperta della misura di sè e delle cose; le si domandava tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci la pietra filosofale del mondo morale, la felicità. Lo scopo della scienza non era speculativo solamente, ma pratico. Nell'ordine speculativo era già conseguito il suo scopo, divenuta per Dante un libro chiuso, di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la scienza dee operare anche sulla volontà, menare a virtù e felicità. E se questo miracolo non era ancora avvenuto, se la realtà era tanto disforme alla scienza, doveasene recare la cagione, secondo Dante e i contemporanei, all'ignoranza. Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale, drizzarla all'opera. Indi l'importanza che ebbe l'etica e la rettorica, la scienza de' costumi e l'arte della persuasione.

I tentativi fatti, compreso il Convito, furono infelici. Trattandosi di verità da esporre e non da cercare, manca lo spirito e l'ardore scientifico, manca in tutti, anche in Dante. La stessa esposizione non è libera, predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea uscire una letteratura filosofica, quella forma, propria degli uomini meditativi, che ti rivela non solo l'idea, ma come in te nasce, come la si presenta, con esso i sentimenti che l'accompagnano, pregna di altre idee, le quali per la potenza comprensiva della parola intravvedi, ancora senza contorni, mobili, nasciture. Qui sta la vita superiore della forma filosofica, generata immediatamente dal travaglio del pensiero, che mette in moto tutte le altre facoltà, compresa l'immaginazione. In quei tentativi il contenuto scientifico ci sta, non nel punto che tu lo trovi e vi metti sopra la mano, ma già trovato, divenuto nello spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo e grezzo dalla scuola. La terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di avere i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli, non vive della vita de' campi, non li lavora, li conosce sulla carta. Rimane una proprietà astratta, senza effettiva possessione, senza assimilazione, un mio che non è me, non è fatto parte dell'anima mia. Non ci è investigazione e non ci è passione, dico la passione che è generata da un amoroso lavoro intellettuale. Il filosofo fora la superficie e si seppellisce nel mondo sotterraneo, dove, come dice Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne coglie i frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza con esso le sue prove e il suo linguaggio; sì che, ferme e intangibili le parti superiori della scienza, non riman libera che l'ultima e più bassa operazione dell'intelletto, distinguere e sottilizzare.

Essendo la scienza base di tutto l'edificio, ne seguitò quella falsa poetica di cui è detto. La letteratura solenne e dotta divenne un istrumento della scienza, un modo di volgarizzarla. E tenne due vie, l'esposizione diretta o l'allegorica. Nè altro fu l'intendimento di Dante nella rappresentazione dell'altro mondo. Come que' filosofi che sotto nome di utopia costruiscono un mondo dove sia realizzato il loro sistema, Dante costruisce il mondo allegorico della scienza, dove pur trova modo di esporla in forma diretta nelle sue parti sostanziali.

Egli ha aria di dire: - Volete salvarvi l'anima? Venite appresso a me nell'altro mondo; ivi impareremo dalla bocca de' morti la filosofia morale, la scienza della salvazione. - E i morti parlano ed espongono la scienza, soprattutto in paradiso, i cui stalli sembrano convertiti in vere cattedre o pulpiti. Nè la scienza è solo nelle parole de' morti, ma anche nella costruzione e rappresentazione dell'altro mondo, dove essa è sposta sotto figura, in forma allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a' suoi fantasmi, e dice: - Bada che tu non passeggi per curiosità, per osservare e dipingere: il tuo scopo è l'insegnamento della scienza per la salute dell'anima; non ti dimenticare della scienza. - E la poetica gli soggiunge: - Pensa che tutte le tue invenzioni, belle che sieno e maravigliose, sono nè più nè meno che sciocche bugie, quando non rendano odore di scienza: la poesia è un velo sotto il quale si dee nascondere la dottrina. - Ond'è che il poeta costringe la stessa realtà a produrre un contenuto scientifico: dietro la realtà ci è la scienza, come dietro l'ombra ci è il corpo; qui la scienza è il corpo, e la realtà è l'ombra, "ombrifero prefazio del vero", anzi è meno che ombra, perché nell'ombra ci è pure l'immagine del corpo. È l'alfabeto della scienza, come la parola è del pensiero, un alfabeto composto non di lettere, ma di oggetti, ciascuno segno della tale e tale idea.

Questi erano i concetti, e queste le forme, a cui lo spirito era giunto. Perciò quel concetto fondamentale dell'età, il mistero dell'anima o dell'umana destinazione, non era ancora realizzato come arte; perché l'arte è realtà vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in se stessa, e qui la scienza, in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi, lo tira e lo scioglie in sè.

Il mistero dell'anima era dunque o rozza e greggia realtà nella letteratura popolare, o trattato e allegoria nella letteratura dotta e solenne.

Dante s'impadronì di questo concetto e tentò realizzarlo come arte. Ma ci si mise con le stesse intenzioni e con le stesse forme. Prese quella rozza realtà degli ascetici, e volle farne l'ombrifero prefazio del vero, l'allegoria della scienza. Da questa intenzione non potea uscir l'arte.

Neppure l'esposizione della scienza in forma diretta è arte. Il poeta che vuole esporre la scienza, e vuol pur fare una poesia, si propone un problema assurdo, voler dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo. La poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento esteriore, non penetra l'idea, non se l'incorpora; l'idea rimane invitta nella sua astrazione. Dante spiega in questo assunto tutte le forze della sua immaginazione; nessuno più di lui ha saputo con tanta potenza assalire la scienza nel proprio campo e farle forza; ma questo connubio della poesia e della scienza, ch'egli chiama nel Convito un "eterno matrimonio", non è uno di due, è un eterno due. La poesia può farle preziosi doni, può vestirla sontuosamente, ingemmarla, girarle attorno carezzevole, può abbigliarla, non possederla. E la possiede allora solamente, quando non la vede più fuori di sè, perché è divenuta la sua vita e anima, la realtà.

L'allegoria è una prima forma provvisoria dell'arte. È già la realtà, che però non ha valore in se stessa, ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori di sè, nel figurato, oggetto o concetto che sia. E poiché nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato, la realtà divenuta allegorica vi è necessariamente guasta e mutilata. O il poeta le attribuisce qualità non sue, ma del figurato come il veltro che si ciba di sapienza e di virtude, o esprime di lei solo alcune parti, e non perché sue, ma perché si riferiscono al figurato, come il grifone del Purgatorio. In tutti e due i casi la realtà non ha vita propria, o per dir meglio non ha vita alcuna: l'interesse è tutto nel figurato, nel pensiero. Ora, o il pensiero è oscuro, e cessa ogni interesse; o è dubbio, di maniera che ti si affaccino più sensi, e tu rimani sospeso e raffreddato; o è chiaro, e lo hai innanzi nella sua generalità, senza carattere poetico. La selva è figura della vita terrena. E la vita terrena, appunto perché figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui è vita, generale e immobile come un concetto. Questo povero figurato è condannato, come Pier delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che mai sen rivesta; e non propriamente suo, perché quel corpo singolare, che chiamasi figura, serve a due padroni, è sè ed un altro, è insieme lettera e figura, un corpo a due anime, rappresentato in guisa, che prima paia se stesso, la selva, e considerato attentamente mostri in sè le orme di un altro. Talora la figura fa dimenticare il figurato; talora il figurato strozza la figura. Per lo più nel senso letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano, e per volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.

Adunque in queste forme non ci è ancora arte. La realtà ci sta o come immagine del pensiero astratto ed estrinseco, o come figura di un figurato parimente astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due termini. Il pensiero non è calato nell'immagine; il figurato non è calato nella figura. Hai forme iniziali dell'arte non hai ancora l'arte.

Dante si è messo all'opera con queste forme e con queste intenzioni. Se l'allegoria gli ha dato abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo cristiano tutta la coltura antica, mitologia, scienza e storia, ha d'altra parte viziato nell'origine questo vasto mondo, togliendogli la libertà e spontaneità della vita, divenuto un pensiero e una figura, una costruzione a priori, intellettuale nella sostanza, allegorica nella forma.

E se la Commedia fosse assolutamente in questi termini, sarebbe quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio poi, grottesca figura d'idee astratte.

Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto e reale, la cui base era la storia del vecchio e nuovo Testamento nella sua esposizione letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri, nei cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea avuta già tutta una letteratura. Era la letteratura degli uomini semplici, poveri di spirito. A costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri allegorici, figurativi della scienza ma reali; Dio, la Vergine, Cristo, gli angioli, i santi, l'inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò che essi chiamavano l'altra vita, non figura di questa, anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità. Il contemplante o il veggente era il santo, il profeta, l'apostolo, banditore della parola di Dio; Dante, l'amico della filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non solo il filosofo, ma il profeta e l'apostolo, rivelandolo e predicandolo agli uomini; diviene il missionario dell'altro mondo, ed è san Pietro che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:

Apri la bocca,

e non asconder quel ch'io non ascondo.

Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta, era per lui una cosa così seria, come per tutt'i credenti, seria nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della scienza, lo intravvede attraverso la scienza, ma la scienza non lo dissolveva, anzi lo illustrava e lo confermava. Supporre che esso fosse una figura, una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un anacronismo, è un correre sino a Goethe. La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura, così l'altro mondo è per Dante più che figura, è vivace e seria realtà, che ha in se stessa il suo valore e il suo significato.

Nè quel mondo cristiano rimane nella sua generalità religiosa, com'è nei cantici, nelle prediche e ne' misteri e leggende. Dalla vita contemplativa cala nella vita attiva e si concreta nella vita reale. Essendo la perfezione religiosa nel dispregio de' beni terreni, i credenti, da Francesco d'Assisi a Caterina, non poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi de' chierici e de' frati, la corruzione della città santa, dove Cristo si mercava ogni giorno, il papa divenuto sovrano temporale e dominato da fini e interessi terreni, in tresca adultera co' re. Su questo punto i santi sono così severi, come Dante; più avean fede, e maggiore era l'indignazione. Venendo più al particolare, abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo il Bello contro l'imperatore, ciò che Dante chiama un adulterio, inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i Bianchi, instaurarvi i guelfi. Il guelfismo era allora la Chiesa, fatta meretrice del re di Francia, che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di tutte le discordie civili. Come potere e interesse temporale, era essa non solo radice e causa della corruzione del secolo, ma impedimento alla costituzione stabile delle nazioni, e massime d'Italia, in quella unità civile o imperiale, che rendea immagine dell'unità del regno di Dio. A questo mondo guasto contrapponevano la purezza de' tempi evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle città, prima che vi entrasse la corruzione e la licenza de' costumi, di cui la Chiesa dava il mal esempio.

Come si vede, il mondo politico entrava per questa via nel mondo cristiano, e ne facea parte sostanziale. La politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi: era un'appendice dell'etica e della rettorica. E come vita reale il suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava un'immagine pura in tempi più antichi, una specie di età dell, oro della vita cristiana.

Questo mondo cristiano-politico non era già per Dante una contemplazione astratta e filosofica. Mescolato nella vita attiva, egli era giudice e parte. Offeso da Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra speranze e timori, fra gli affetti più contrari, odio e amore, vendetta e tenerezza, indignazione e ammirazione, con l'occhio sempre volto alla patria che non dovea più vedere, in quella catastrofe italiana c'era la sua catastrofe, le sue opinioni contraddette, la sua vita infranta nel fiore dell'età e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino. Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue. Non è Omero, contemplante sereno e impersonale; è lui in tutta la sua personalità, vero microcosmo, centro vivente di tutto quel mondo, di cui era insieme l'apostolo e la vittima.

Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne' concetti dell'età, volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica, come entra in quel mondo, non vi trova più la figura. Simile a quel pittore che s'inginocchia innanzi al suo san Girolamo, trasformatasi nell'immaginazione la figura nella persona del santo, egli cerca la figura e trova una realtà piena di vita, trova se stesso.

Oltre a ciò, Dante era poeta. Invano afferma che "poeta" vuol dire "profeta", banditore del vero. Sublime ignorante, non sapea dov'era la sua grandezza. Era poeta e si ribella all'allegoria. La favola, ciò ch'egli chiama "bella menzogna", lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia ir dietro come innamorato, nè sa creare a metà, arrestarsi a mezza via. Nel caldo dell'ispirazione non gli è possibile starsi col secondo senso innanzi e formar figure mozze, che vi rispondano appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce a' mediocri. La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene se stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari. Indi la disperazione de' comentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.

Per metter d'accordo la sua poetica con la sua poesia, Dante sostiene nel Convito che il senso letterale dee essere indipendente dall'allegorico, di modo che sia intelligibile per se stesso. Con questa scappatoia si è salvato dalle strette dell'allegoria, ed ha conquistato la sua libertà d'ispirazione, la libertà e indipendenza delle sue creature. Sia pure l'altro mondo figura della scienza; ma è prima e innanzi tutto l'altro mondo, e Virgilio è Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante, e se di alcuna cosa ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si ficca dentro e sconcia l'immagine e guasta l'illusione.

Sicché nella Commedia, come in tutt'i lavori d'arte, si ha a distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò che ha fatto. L'uomo non fa quello che vuole, ma quello che può. Il poeta si mette all'opera con la poetica, le forme, le idee e le preoccupazioni del tempo; e meno è artista, più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza. Vedete Brunetto e Frezzi. Ivi tutto è chiaro, logico e concorde: la realtà è una mera figura. Ma se il poeta è artista, scoppia la contraddizione vien fuori non il mondo della sua intenzione, ma il mondo dell'arte.

Come l'argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro. Le memorie secrete del genio non sono scritte ancora e mal si può indovinare da quello che è espresso quello che è preceduto nello spirito d'un autore. È difficile far la geologia di un lavoro d'arte, trovare nel definitivo le tracce del provvisorio. È probabile che la Commedia sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad imitazione di quelle "commedie dell'anima", di quelle visioni dell'altra vita, così in voga; e che dapprima il poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla rappresentazione pura e semplice dell'altro mondo; e forse de' frammenti e anche de' canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in mente. Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente drammatico, il tempo de' tentennamenti, del silenzioso contendere con se stesso, degli abbozzi, del va e vieni, storia intima del poeta. Il quale, quando gli si mostra l'argomento, vede per prima cosa dissolversi quella parte di realtà che vi risponde, fluttuante come in una massa di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili, i palazzi, tutte le figure si decompongono e si offrono a frammenti. Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza di crearla. Ma sono frammenti già penetrati di virtù attrattiva, amorosi, che si cercano, si congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della nuova vita a cui sono destinati. La creazione comincia veramente, quando quel mondo tumultuario e frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi. Allora esce dall'illimitato che lo rende fluttuante, e prende una forma stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza. Ora il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.

La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all'argomento, è insito nell'altro mondo, è il suo concetto; perché senza di quella l'altro mondo non ha ragion d'essere. La base dunque è vera, è nell'argomento; e se difetto c'è, il difetto è nella natura dell'argomento. Ma Dante meditandovi sopra, e non come poeta ma come filosofo, valicò l'argomento. Non è contento che la ci sia, ma la mostra e la spiega. E non si contenta neppure di questo. Quella idea diviene la filosofia, tutto un sistema di concetti ben coordinato, e non è più la base, il senso interiore dell'altro mondo a quel modo che lo spirito è nella natura, ma è essa il contenuto, essa l'argomento, essa lo scopo. Così quella vivace realtà si va ad evaporare in una generalità filosofica, e il lavoro diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell'altro mondo. Il poeta spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne. Descrivere l'altro mondo così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo passatempo, la maniera de' narratori volgari. La lettera ci è, ma è per i profani, per gli uomini semplici, che non vedono di là dell'apparenza. Ma egli scrive per gl'iniziati, per gl'intelletti sani, e loro raccomanda di non fermarsi alla corteccia, di guardare di là! E tutti si son messi a guardare di là.

Così sono nati due mondi danteschi, uno letterale e apparente, l'altro occulto, la figura e il figurato. E poiché l'interesse è in questo senso occulto, in questo di là, i dotti si son messi a cercarlo. L'hanno cercato, e non l'hanno trovato, e dopo tante dispute e vane congetture, esce infine il buon senso, esce Voltaire e dice: "Gl'italiani lo chiamano divino ma è una divinità occulta; pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre, perché nessuno lo legge". E Voltaire vuol dire: - Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti; e poiché non ti vuoi far capire, statti con Dio -. E vuol dire ancora: - Ne val poi la pena? È una falsa divinità quella che rimane nascosta -. Pure nè il veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, nè il suo disprezzo ad intiepidire l'ammirazione. Con nuovo ardore italiani e stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi, l'uno visibile e l'altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto il dio. Ma nè acutezza d'ingegno, nè copia di dottrina, nè profonda conoscenza di quei tempi, nè studio paziente delle altre sue opere hanno potuto trarci fuori delle ipotesi e delle congetture. Gli antichi interpreti dissentivano ne' particolari; il dissenso de' moderni è più profondo: hai interi sistemi che si confutano a vicenda. Oggi ancora non si pubblica un Dante in Germania, che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non puoi leggere una critica della Commedia, che non ti trovi ingolfato in un pelago di quistioni. Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di sillogismi e soprasensi, e spesso sei ridotto a domandarti: - Qual è il vero Dante? - Poiché ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni e passioni sue, e lo fa cantare a suo modo, e chi ne fa un apostolo di libertà, di umanità, di nazionalità, chi un precursore di Lutero, chi un santo Padre. Cercano Dante dove non è, cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti, e qual maraviglia che il Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel trovando, si sia affrettato a conchiudere: "Dunque Dante non esiste"? Io ne conchiudo: - Poiché non è là, cerchiamolo altrove. - La grandezza del dio non è nel santuario, ma là dove si mostra con tanta pompa al di fuori. A forza di cercar maraviglie in un mondo ipotetico, non vediamo quelle che ci si affacciano innanzi. Parlando a coro della dignità della Commedia e de' veri e del senso arcano, si è data una importanza fattizia a questo mondo intellettuale-allegorico, se non fosse per altro, per la fatica che ci si è spesa. Se Dante tornasse in vita, sentendo a dire che Beatrice è l'eresia o la sua anima, che le arpie sono i monaci domenicani, che Lucifero è il papa, che il suo vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli sono affibbiati, potrebbe a più d'uno tirargli le orecchie e dire: - Cotesto "arri" non ci misi io -. Ma gli si potrebbe rispondere: - Vostra colpa: perché non siete stato più chiaro? Ci avete promessa un'allegoria: perché non ci avete data un'allegoria? La vostra figura non risponde appuntino al figurato: perché l'avete fatta sì bella? Perché le avete data tanta realtà? In tanta ricchezza di particolari dove o come trovare l'allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi una per me e una per voi? Qual maraviglia che nella stessa figura si trovi di che provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che, oltre all'allegorico, ci è il senso morale e l'anagogico: dove trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo è un velo dello spirito: ma il peccatore fa di cappello allo spirito e adora la carne. E anche voi gridate che i versi sono un velo della dottrina; e, come il peccatore, piantate lì il figurato, e correte appresso alla figura, e la fate così impolpata, così corpulenta, che è un velo denso e fitto, di là dal quale non si vede nulla, e perciò si vede tutto, quello che intendete voi e quello che intendiamo noi. Se dunque la vostra allegoria è come l'ombra di Banco, messa tra voi e noi, che ci toglie la vostra vista, se il vostro poema è divenuto un immenso geroglifico, un mondo ignoto, alla cui scoperta si son messi infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della vostra poca logica, che altro intendete e altro fate? - Rimproveri che sono un elogio.

Così è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva. Ciascuno è quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo essere un altro. Dante è poeta, e avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi penetrare l'aria e la luce. Tratto ad una falsa concezione dal vezzo de' tempi, valica l'argomento e si trova in un mondo di puri concetti, e fa di questi la sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne vuol fare la figura de' suoi concetti. Ma, come attinge il reale, ivi sente se stesso, ivi genera, ivi l'ingegno trova la sua materia; quelle figure prendono corpo, acquistano una vita propria; e le diresti creature libere e indipendenti, se quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo, impacciando a volta a volta i loro movimenti. Così quel mondo intenzionale, tanto caro al poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del mondo reale, solo rimasto vivo. Tutto l'altro è l'astratto di quel mondo, è il lavoro oltrepassato: non è la Commedia, è il suo di là, la sua nebbia, che pur penetra qua e là e lascia delle grandi ombre, che gl'interpreti dilatano e trasformano in una sola e vasta ombra. A quel modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette, che attestano la lenta e progressiva formazione della materia, qui si discernono i frammenti di un mondo prosaico, intellettuale, allegorico, scissi, isolati, sterili, più o meno tollerabili, secondo la maggiore o minore abilità dell'esposizione, inviluppati in una forma più alta, alla quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua poetica. I quali frammenti sono i fossili della Commedia, morti già da gran tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della letteratura; e se la loro morte non ha potuto seco involgere il rimanente, gli è che il vero lavoro è in questo rimanente, dotato di una vita così fresca e tenace, che distende un po' di sua luce anche sulle parti morte. Quel contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entrato: spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe più.

Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato come arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran cosa è questa! Il medio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell'arte. La religione era misticismo la filosofia scolasticismo. L'una scomunicava l'arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale. L'altra viveva di astrazioni e di formole e di citazioni, drizzando l'intelletto a sottilizzare intorno a' nomi e alle vacue generalità che si chiamavano "essenze". Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a realizzare: ciò che è proprio il contrario dell'arte. Ne' poeti semplici trovi il reale rozzo, senza formazione, come ne' misteri, nelle visioni, nelle leggende. Ne' poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica, o figurativa e allegorica. L'arte non era nata ancora. C'era la figura; non c'era la realtà nella sua libertà e personalità.

Dante raccoglie da' misteri la Commedia dell'anima, e fa di questa storia il centro di una sua visione dell'altro mondo. Tutta questa rappresentazione non è che senso letterale; la visione è allegorica, i personaggi sono figure e non persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito, lo porta verso la figura e non verso il figurato. La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi e lo costringe a concretare, a materializzare, a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio. Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è più lettera, ma è spirito, non è più figura, ma è realtà, è un mondo in sè compiuto e intelligibile, perfettamente realizzato. Visione e allegoria, trattato e leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme, in questo gran mistero dell'anima o dell'umanità, poema universale, dove si riflettono tutt'i popoli e tutti i secoli che si chiamano il "medio evo".

Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l'intenzione del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta poesia. La falsa coscienza poetica disturba l'opera di quella geniale spontaneità, e vi gitta dentro un tentennare, un non so che di mal sicuro e di non compiuto, una mescolanza e crudezza di colori. Il pensiero, ora nella sua crudità scolastica, ora abbellito d'immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte. Le sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri orientali che la schietta bellezza greca, personificazioni astratte, anzi che persone conscie e libere. Preoccupato del secondo senso che ha in mente, spesso gli escono particolari estranei alla figura, che turbano e distraggono il lettore e gli rompono l'illusione. La presenza perenne di un altro senso, che aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando a quando, ne turba la chiarezza e l'armonia. Anche lo stile, inviluppato alcuna volta in rapporti lontani e sottili, perde la sua lucidità e riesce intralciato e torbido. Non è un tempio greco: è un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove contrari elementi pugnano, non bene armonizzati. Or rozzo, or delicato. Ora poeta solenne, or popolare. Ora perde di vista il vero e si abbandona a sottigliezze, ora lo intuisce rapidamente e lo esprime con semplicità. Ora rozzo cronista, ora pittore finito. Ora si perde nelle astrattezze, ora di mezzo a quelle fa germogliare la vita. Qui cade in puerilità, là spicca il volo a sopraumane altezze. Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce dell'immagine. E mentre teologizza, scoppia la fiamma del sentimento. Talora ti trovi innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti dentro tremare la carne. Talora la sua credulità ti fa sorridere, talora la sua audacia ti fa stupire. Fu un piccolo mondo, dove si rifletteva tutta l'esistenza, com'era allora. I contrari elementi, che fermentavano in una società ancora nello stato di formazione, contendevano in lui. E senza che ne avesse coscienza. Se guardi alle sue aspirazioni, tutto è armonia. Filosofo, pensa il regno della scienza e della virtù. Cristiano, contempla il regno di Dio. Patriota, sospira al regno della giustizia e della pace. Poeta, vagheggia una forma tutta luce e proporzione e armonia, lo bello stile: il suo autore è Virgilio. Maggiore era la barbarie e la rozzezza, e più si vagheggiava un mondo armonico e concorde. Ma il poeta è inviluppato egli medesimo in quella rozza realtà e in quelle forme discordi; e ne sente la puntura, e gli manca la serenità dell'artista. E gli esce dalla fantasia un mondo dell'arte in gran parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le scabrosità di una materia non perfettamente doma.

Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo. Perché un argomento non è tabula rasa, dove si può scrivere a genio, ma è marmo già incavato e lineato, che ha in sè il suo concetto e le leggi del suo sviluppo. La più grande qualità del genio è d'intendere il suo argomento, e diventare esso, risecando da sè tutto ciò che non è quello. Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la sua coscienza E parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte; e giudicare con lo stesso criterio la Commedia e l'Iliade e la Gerusalemme e il Furioso, dee studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica, cioè le leggi organiche della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo stile. Che cosa è l'altro mondo?

È il problema dell'umana destinazione sciolto, è il mistero dell'anima spiegato, è la fine della storia umana, il mondo perfetto l'eterno presente, l'immutabile necessità. Nella natura non ci è più accidente, nell'uomo non ci è più libertà. La natura è predeterminata e fissata secondo una logica preconcetta, secondo l'idea morale. Reale e ideale diventano identici, apparenza e sostanza è tutt'uno. L'uomo non ha più libero arbitrio: è lì, fissato e immobilizzato, come natura. Ogni azione è cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra, è sciolto: patria, famiglia, ricchezze, dignità, costumi. Non c'è più successione, nè sviluppo, non principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma. L'individuo scompare nel genere. Il carattere, la personalità, non ha modo di manifestarsi. Eterno dolore, eterna gioia, senza eco, senza varietà, senza contrasto nè gradazione. Non ci è epopea, perché manca l'azione; non ci è dramma, perché manca la libertà; la lirica è l'immutabile e monotona espressione di una sola aria; rimane l'esistenza nella sua immobile estrinsechezza, descrizione della natura e dell'uomo.

Che cosa è dunque l'altro mondo per rispetto all'arte? È visione, contemplazione, descrizione, una storia naturale.

Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero, perché ivi dentro è rappresentata la commedia o redenzione dell'anima nel suo pellegrinaggio dall'umano al divino, "di Fiorenza in popol giusto e sano". Ci hai dunque l'apparenza di un dramma, che si svolge nell'altro mondo, i cui attori sono Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro, san Bernardo, la Vergine, Dio, dramma allegorico, come allegorica è la Commedia dell'anima. Dico apparenza di un dramma, perché la santificazione nasce non dall'operare, ma dal contemplare, e Dante contempla, non opera, e gli altri mostrano, insegnano. Il dramma dunque svanisce nella contemplazione.

Questo mondo così concepito era il mondo de' misteri e delle leggende, divenuto mondo teologico-scolastico in mano a' dotti. Dante lo ha realizzato, gli ha dato l'esistenza dell'arte, ha creato quella natura e quell'uomo. E se il suo mondo non è perfettamente artistico, il difetto non è in lui, ma in quel mondo, dove l'uomo è natura e la natura è scienza, e da cui è sbandito l'accidente e la libertà, i due grandi fattori della vita reale e dell'arte.

Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe chiuso entro e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell'allegoria. Ma Dante, entrando nel regno de' morti, vi porta seco tutte le passioni de' vivi, si trae appresso tutta la terra. Dimentica di essere un simbolo o una figura allegorica, ed è Dante, la più potente individualità di quel tempo, nella quale è compendiata tutta l'esistenza, com'era allora, con le sue astrattezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose, con la sua civiltà e la sua barbarie. Alla vista e alle parole di un uomo vivo, le anime rinascono per un istante, risentono l'antica vita, ritornano uomini; nell'eterno ricomparisce il tempo; in seno dell'avvenire vive e si muove l'Italia, anzi l'Europa di quel secolo. Così la poesia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eternità, umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene umano e terreno, con la propria impronta dell'uomo e del tempo. Riapparisce la natura terrestre, come opposizione, o paragone, o rimembranza. Riapparisce l'accidente e il tempo, la storia e la società nella sua vita esterna ed interiore; spunta la tradizione virgiliana, con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita, ed entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo, Bonifazio ottavo, Roberto, Filippo il Bello, Carlo di Valois, i Cerchi e i Donati, la nuova e l'antica Firenze, la storia d'Italia e la sua storia, le sue ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le sue predilezioni.

Così la vita s'integra, l'altro mondo esce dalla sua astrazione dottrinale e mistica, cielo e terra si mescolano, sintesi vivente di questa immensa comprensione Dante, spettatore, attore e giudice. La vita guardata dall'altro mondo acquista nuove attitudini, sensazioni e impressioni. L'altro mondo guardato dalla terra veste le sue passioni e i suoi interessi. E n'è uscita una concezione originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo. Sono due mondi onnipresenti, in reciprocanza d'azione, che si succedono, si avvicendano, s'incrociano, si compenetrano, si spiegano e s'illuminano a vicenda, in perpetuo ritorno l'uno nell'altro. La loro unità non è in un protagonista, nè in un'azione, nè in un fine astratto ed estraneo alla materia, ma è nella stessa materia; unità interiore e impersonale, vivente indivisibile unità organica, i cui momenti si succedono nello spirito del poeta, non come meccanico aggregato di parti separabili, ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi, com'è la vita. Questa energica e armoniosa unità è nella natura stessa de' due mondi, materialmente distinti ma una cosa nell'unità della coscienza. Cielo e terra sono termini correlativi, l'uno non è senza l'altro; il puro reale ed il puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il suo ideale; ogni uomo porta seco il suo inferno e il suo paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto tutti gli dei d'Olimpo: lo scettico può abolire l'inferno, non può abolir la coscienza. Appunto perché i due mondi sono la vita stessa nelle sue due facce, in seno a questa unità si sviluppa il più vivace dualismo, anzi antagonismo: l'altro mondo rende i corpi ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe, ma in quelle ombre freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano d'imprecazioni terrene fino le tranquille vòlte del cielo. Gli uomini, con esso le loro passioni e vizi e virtù rimangono eterni, come statue, in quell'attitudine, in quella espressione di odio, di sdegno, di amore, che sono stati colti dall'artista; ma mentre l'altro mondo eterna la terra, trasportandola nel suo seno e ponendole dirimpetto l'immagine dell'infinito, ne scopre il vano e il nulla: gli uomini sono gli stessi in un diverso teatro, che è la loro ironia. Questa unità e dualità uscente dall'imo stesso della situazione balena al di fuori nelle più varie forme, ora in un'apostrofe, ora in un discorso, ora in un gesto, ora in un'azione, ora nella natura, ora nell'uomo. In questa unità penetra la più grande varietà, nè è facile trovare un lavoro artistico, in cui il limite sia così preciso e così largo. Niente è nell'argomento che costringa il poeta a preferire il tal personaggio, il tal tempo, la tale azione: tutta la storia, tutti gli aspetti sotto a' quali si è mostrata l'umanità, sono a sua scelta; e può abbandonarsi a suo talento alle sue ire e alle sue opinioni, e può intramettere nello scopo generale fini particolari, senza che ne scapiti l'unità. Il che dà al suo universo compiuta realità poetica, veggendosi nella permanente unità tutto ciò che sorge e dalla libertà dell'umana persona e dall'accidente, e moversi con vario gioco tutt'i contrasti, e il necessario congiunto col libero arbitrio, e il fato col caso.

Adunque, che poesia è codesta? Ci è materia epica, e non è epopea; ci è una situazione lirica, e non è lirica; ci è un ordito drammatico, e non è dramma. È una di quelle costruzioni gigantesche e primitive, vere enciclopedie, bibbie nazionali, non questo o quel genere, ma il tutto, che contiene nel suo grembo ancora involute tutta la materia e tutte le forme poetiche, il germe di ogni sviluppo ulteriore. Perciò nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato: l'uno entra nell'altro, l'uno si compie nell'altro. Come i due mondi sono in modo immedesimati, che non puoi dire: - Qui è l'uno, e qui è l'altro -; così i diversi generi sono fusi di maniera, che nessuno può segnare i confini che li dividono, nè dire: - Questo è assolutamente epico, e questo è drammatico. -

È il contenuto universale, di cui tutte le poesie non sono che frammenti, il "poema sacro", l'eterna geometria e l'eterna logica della creazione incarnata ne' tre mondi cristiani: la città di Dio, dove si riflette la città dell'uomo in tutta la sua realtà del tal luogo e del tal tempo; la sfera immobile del mondo teologico, entro di cui si movono tempestosamente tutte le passioni umane.

L'idea che anima la vasta mole e genera la sua vita e il suo sviluppo, è il concetto di salvazione, la via che conduce l'anima dal male al bene, dall'errore al vero, dall'anarchia alla legge, dal molteplice all'uno. È il concetto cristiano e moderno dell'unità di Dio sostituita alla pluralità pagana. Questo concetto, se fosse solo un di fuori, spiegato nella sua astrattezza dottrinale come pensiero, o rappresentato in forma allegorica come figurato, non basterebbe a generare un'opera d'arte. Ma qui è non solo il di fuori, ma il di dentro, non solo il significato e la scienza di quel mondo opera di filosofo e di critico, ma principio attivo, com'è nell'uomo e nella natura, che costruisce e forma quel mondo, e gli dà una storia e uno sviluppo. Questo principio attivo, se nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene, o la virtù o la legge, come realtà viva e operosa è lo spirito, che ha per suo contrario la materia o la carne, dove sta come in una prigione o in un "vasello", da cui si sforza di uscire. La vita è perciò un antagonismo, una battaglia tra lo spirito e la carne, tra Dio e il demonio. E la sua storia è la progressiva vittoria dello spirito, la costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive, il suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio, assoluto spirito, la Verità, la Bontà, l'Unità, l'ultimo Ideale. Il concetto dantesco, lo spirito che alita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l'emancipazione della materia e del senso mediante l'espiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l'inferno e il paradiso, posta e sciolta. Omero trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell'altro mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione; il reale, il presente è l'infinito spirito; tutto l'altro è "vanità che par persona". Questo assottigliamento è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente. L'Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell'altro mondo e s'immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, pena eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell'intelletto, lo spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via, e lo spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè, alla salvazione. Nel Paradiso l'umana persona scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su, e più questa gloriosa trasfigurazione s'idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell'assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento:

... ... tutta cessa

mia visione e ancor mi distilla

nel cor lo dolce che nacque da essa.

Così la neve al sol si disigilla;

così al vento nelle foglie lievi

si perdea la sentenzia di Sibilla.

Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta la storia; non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco, ma lo incontrate sempre vivo nel cammino intellettuale e storico della vita, sotto tutte le forme, in tutte le quistioni che si affacciano al poeta, in religione, in filosofia, in politica, in morale, e così si concreta e compie in tutti gl'indirizzi della vita. In religione è il cammino dalla lettera allo spirito, dal simbolo all'idea, dal vecchio al nuovo Testamento; nella scienza dall'ignoranza e dall'errore alla ragione e dalla ragione alla rivelazione; in morale dal male al bene, dall'odio all'amore, mediante l'espiazione; in politica dall'anarchia all'unità. Sottoposto alle condizioni di spazio e di tempo, diventa storia: il tale uomo, il tale popolo, il tale secolo. In religione vi sta innanzi la Chiesa romana, il papato, che il poeta vuole emancipare dalle cure e passioni terrene e ricondurre al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza volgare e la scienza della verità in paradiso; in morale vi stanno innanzi le passioni, le discordie, le colpe e i vizi della barbara età, dalle quali vi sentite a poco a poco allontanare nel vostro cammino verso il sommo bene; in politica è l'Italia anarchica e sanguinosa che il poeta aspira a comporre a pace e concordia nell'unità dell'impero. Così un solo concetto penetra il tutto, come forma, come pensiero e come storia. Mai più vasta e concorde comprensione non era uscita da mente di uomo. Alcuni ci vedono dentro l'altro mondo, e il resto è una intrusione e quasi una profanazione; Edgardo Quinet rimane choqué veggendo come le passioni del poeta lo inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo politico, di cui quello sia la rappresentazione sotto figura. Chiamano questo poema o "religioso", o "politico", o "didascalico", o "morale", lo riducono a querele di cattolici e protestanti, a dispute di guelfi e ghibellini. Guardano non dall'alto del monte, dalla pianura, e prendono per il tutto quello che incontrano nella diritta linea del loro cammino. Ciascuno si fabbrica un piccolo mondo e dice: - Questo è il mondo di Dante. - E il mondo di Dante contiene tutti quei mondi in sè. È il mondo universale del medio evo realizzato dall'arte.

Questa immensa materia si forma e si sviluppa secondo il concetto in tre mondi, de' quali l'inferno e il paradiso sono le due forze in antagonismo, carne e spirito, odio e amore, e il purgatorio è il termine medio o di passaggio: tre mondi, de' quali la letteratura non offriva che povere e rozze indicazioni, e che escono dalla fantasia dantesca vivi e compiuti.

L'inferno è il regno del male, la morte dell'anima e il dominio della carne, il caos: esteticamente è il brutto.

Dicesi che il brutto non sia materia d'arte, e che l'arte sia rappresentazione del bello. Ma è arte tutto ciò che vive, e niente è nella natura che non possa esser nell'arte. Non è arte quello solo che ha forma difettiva o in sè contraddittoria, cioè l'informe o il deforme o il difforme: e perciò non è arte il confuso, l'incoerente, il dissonante, il manierato, il concettoso, l'allegorico, l'astratto, il generale, il particolare: tutto questo non è vivo, è abbozzo o aborto di artisti impotenti. L'altro, bello o brutto che si chiami in natura, esteticamente è sempre bello.

In natura il brutto è la materia abbandonata a' suoi istinti, senza freno di ragione: e ne nasce una vita che ripugna alla coscienza morale e al senso estetico. Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato se stesso, e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: - Tu sei brutto. - Più il suo senso morale ed estetico è sviluppato, e più la sua impressione è gagliarda, più lo vede vivo e vero innanzi alla immaginazione. Perciò non pensa a palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo, anzi lo pone in evidenza e lo ritrae co' suoi propri colori.

Il brutto è elemento necessario così nella natura, come nell'arte; perché la vita è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto. Togliete la contraddizione, e la vita si cristallizza. Verità così palpabile che le immaginazioni primitive posero della vita due princìpi attivi, il bene e il male, l'amore e l'odio, Dio e il demonio; antagonismo che si sente in tutte le grandi concezioni poetiche. Perciò il brutto, così nella natura, come nell'arte, ci sta con lo stesso dritto che il bello, e spesso con maggiori effetti, per la contraddizione che scoppia nell'anima del poeta. Il bello non è che se stesso; il brutto è se stesso e il suo contrario, ha nel suo grembo la contraddizione, perciò ha vita più ricca, più feconda di situazioni drammatiche. Non è dunque maraviglia che il brutto riesca spesso nell'arte più interessante e più poetico. Mefistofele è più interessante di Fausto, e l'inferno è più poetico del paradiso.

Dante concepisce l'inferno come la depravazione dell'anima, abbandonata alle sue forze naturali, passioni, voglie, istinti, desidèri, non governati dalla ragione o dall'intelletto; contraddizione ch'egli esprime con l'energia di uomo offeso nel suo senso morale:

... ... le genti dolorose,

che hanno perduto il ben dell'intelletto...

Che libito fe' licito in sua legge...

Che la ragion sommettono al talento...

L'anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza; peccatrice in vita, peccatrice ancor nell'inferno, salvo che qui il peccato è non in fatto, ma in desiderio. Onde nell'inferno la vita terrena è riprodotta tal quale, essendo il peccato ancor vivo e la terra ancora presente al dannato. Il che dà all'inferno una vita piena e corpulenta, la quale spiritualizzandosi negli altri due mondi diviene povera e monotona. Gli è come un andare dall'individuo alla specie e dalla specie al genere. Più ci avanziamo, e più l'individuo si scarna e si generalizza. Questa è certo perfezione cristiana e morale, ma non è perfezione artistica. L'arte come la natura è generatrice, e le sue creature sono individui, non specie o generi, non tipi o esemplari; sono res, non species rerum, Perciò l'inferno ha una vita più ricca e piena, ed è de' tre mondi il più popolare. Aggiungi che la vita terrena o infernale è colta dal poeta nel vivo stesso della realtà in mezzo a cui si trova, essendo essa la rappresentazione epica della barbarie, nella quale il rigoglio della passione e la sovrabbondanza della vita trabocca al di fuori. Dante stesso è un barbaro, un eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo, appassionatissimo, libera ed energica natura. Al contrario la vita negli altri due mondi non ha riscontro nella realtà, ed è di pura fantasia, cavata dall'astratto del dovere e del concetto, e ispirata dagli ardori estatici della vita ascetica e contemplativa.

Essendo l'inferno il regno del male o della materia in se stessa e ribelle allo spirito, la legge che regola la sua storia o il suo sviluppo è un successivo oscurarsi dello spirito, insino alla sua estinzione, alla materia assoluta.

Il suo punto di partenza è l'indifferente, l'anima priva di personalità e di volontà, il negligente. Il carattere qui è il non averne alcuno. In questo ventre del genere umano non è peccato, nè virtù, perché non è forza operante: qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il preludio di esso. Ma se, moralmente considerati, i negligenti tengono il più basso grado nella scala de' dannati e paiono a Dante "sciaurati" più che peccatori, il concetto morale rimane estrinseco alla poesia e non serve che a classificare i dannati. Altri sono i criteri del poeta. La morale pone i negligenti sul limitare dell'inferno, la poesia li pone più giù dell'ultimo scellerato, che Dante stima più di questi mezzi uomini. E la poesia è d'accordo con la tempra energica del gran poeta e de' suoi contemporanei. A quegli uomini vestiti di ferro anima e corpo questi esseri passivi e insignificanti doveano ispirare il più alto dispregio. E il dispregio fa trovare a Dante frasi roventi. Sono uomini che vissero senza infamia e senza lode", anzi "non fur mai vivi". La loro pena è di essere stimolati continuamente, essi che non sentirono stimolo alcuno nel mondo. La pena è minima, eppure tale è la loro fiacchezza morale, sono così vinti nel "duolo", che lacrimano e gettano le alte strida, che fanno tumultuare l'aria

come la rena quando il turbo spira.

A' loro piedi è la loro immagine, il verme. Turba infinita, senza nome: appena accenna ad un solo, e senza nominarlo,

colui che fece per viltate il gran rifiuto

Il loro supplizio è la coscienza della loro viltà, il sentirsi dispregiati, cacciati dal cielo e dall'inferno. Ritratto immortale e popolarissimo, di cui alcuni tratti sono rimasti proverbiali. Esseri poetici, appunto perché assolutamente prosaici, la negazione della poesia e della vita: onde nasce il sublime negativo degli ultimi tre versi:

Fama di loro il mondo esser non lassa:

Misericordia e Giustizia gli sdegna.

Non ragioniam di lor; ma guarda e passa.

Se i negligenti non sono nell'inferno, perché mancò loro la forza del bene e del male, gl'innocenti e i virtuosi non battezzati non sono in paradiso, perché mancò loro la fede, sono nel Limbo. E anche qui il concetto teologico ci sta per memoria, per semplice classificazione. La poesia nasce da altre impressioni e da altri criteri. Il valore poetico dell'uomo non è nella sua moralità e nella sua fede, ma nella sua energia vitale; non è una idea, ma una forza, il personaggio poetico. Perciò il negligente, considerato esteticamente, è un sublime negativo, la negazione della forza, il non esser vivo. E perciò qui nel Limbo la mancanza di fede è un semplice accessorio, e l'interesse è tutto nel valore intrinseco dell'uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico e dà ad alcuni un luogo distinto non per la loro maggiore bontà, ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell'ingegno e delle opere:

... ... L'onrata nominanza

che di lor suona su nel vostro mondo,

grazia acquista nel ciel che sì gli avanza.

Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un pantheon di uomini illustri. E chi vuol trovare le impressioni di Dante, quando alzava questo magnifico tempio della storia e della coltura antica, e le impressioni che ne dovettero ricevere i contemporanei, ricordi le sue impressioni quando giovinetto su' banchi della scuola gli si affacciavano le maraviglie di questo mondo greco-latino. Aristotile, Omero, Virgilio, Cesare, Bruto, ciascuno di questi nomi, quante memorie, quante fantasie suscitava! Nudo è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti caratteristici che segnano i protagonisti, il "signore dell'altissimo canto" e il "maestro di color che sanno". E colui, che a quella vista si sente "esaltare" in se stesso e s'incorona poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de' tempi nuovi, "sesto tra cotanto senno", è non il Dante dell'altro mondo, ma Dante Alighieri. Ecco ciò che rende il Limbo così interessante, come il mondo de' negligenti, due concezioni originalissime, uscite da un profondo sentimento della vita reale e rimaste freschissime ne' secoli. Molti tratti sono ancora oggi in bocca del popolo.

Come l'inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel canto undecimo il poeta stesso, architetto e filosofo delle sue costruzioni. Quel regno del male è partito in tre mondi, rispondenti alle tre grandi categorie del delitto: la incontinenza e violenza, la malizia, e la fredda premeditazione. Ciascuna di queste categorie si divide in generi e specie, in cerchi e gironi. Il concetto etico di questa scala de' delitti è che dove è più ingiuria è più colpa, e l'ingiuria non è tanto nel fatto, quanto nell'intenzione. Perciò la malizia e la frode è più colpevole della incontinenza e violenza, e la fredda premeditazione de' traditori è più colpevole della malizia. Indi la storica evoluzione dell'inferno, dove da' meno colpevoli, gl'incontinenti, si passa alla città di Dite, sede de' violenti, e poi si scende in Malebolge, e di là nel pozzo de' traditori. Questo è l'inferno scientifico o etico. Ma non è ancora l'inferno poetico.

La poesia dee voltare questo mondo intellettuale in natura vivente. L'ordine scientifico presenta una serie di concetti astratti, il poetico una serie di figure, di fatti e d'individui: il primo una serie di delitti, il secondo una serie non solo d'individui colpevoli, ma di tali e tali individui. Dividere in categorie significa considerare in un gruppo d'individui non quello che ciascuno ha di proprio, ma quello che ha di comune col gruppo a cui appartiene. Così una classificazione è possibile, una esatta riduzione a generi e specie. Ma la poesia ritorna l'individuo nella sua libera personalità, e lo considera non come essere morale, ma come forza viva e operante. E più in lui è vita, più è poesia. Perciò, se l'inferno, come mondo etico, è il successivo incattivirsi dello spirito, sì che alla violenza, comune all'uomo e all'animale, succede la malizia, "male proprio dell'uomo", e alla malizia la fredda premeditazione, questo concetto poeticamente rimane ozioso e non serve che alla sola classificazione. Come natura vivente o come forma, l'inferno è la morte progressiva della natura, la vita e il moto che manca a poco a poco sino alla compiuta immobilità, alla materia come materia, dove insieme con la vita muore la poesia. Indi la storia dell'inferno.

Dapprima la situazione è tragica: il motivo è la passione, dove la vita si manifesta in tutta la sua violenza; perché la passione raccoglie tutte le forze interiori, distratte e sparpagliate nell'uso quotidiano della vita, intorno a un punto solo, di modo che lo spirito acquista la coscienza della sua libertà infinita. Preso per se stesso lo spirito ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e non può esser vinta neppure da Dio, non potendo Dio fare ch'esso non creda, non senta e non voglia quello che crede, sente e vuole. Non vi è donnicciuola, così vile, che non si senta forza infinita, quando è stretta dalla passione. - Io ti amo e ti amerò sempre, e se dopo morte si ama, ed io ti amerò, e piuttosto con te in inferno che senza te in paradiso. - Queste sono le eloquenti bestemmie che traboccano da un cuore appassionato, e che rendono eroiche la timida Giulietta e la gentile Francesca.

Ma quando la passione vuole realizzarsi, s'intoppa in un altro infinito, nell'ordine generale delle cose, di cui si sente parte e innanzi a cui è un fragile individuo. E n'esce la tragica collisione tra la passione e il fato, l'uomo e Dio, il peccato. Nella vita nè la passione, nè il fato sono nella loro purezza: la passione ha le sue fiacchezze e oscillazioni; il fato talora è il caso, o l'espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in cui intoppa il protagonista. Ma nell'inferno l'anima è isolata dal fatto ed è pura passione e puro carattere, perciò inviolabile e onnipotente, e il fato è Dio, come eterna giustizia e legge morale: onde la prima parte dell'inferno, ove incontinenti e violenti, esseri tragici e appassionati, mantengono la loro passione di rincontro a Dio, è la tragedia delle tragedie, l'eterna collisione nelle sue epiche proporzioni.

Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso concetto. La natura infernale non è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt'i caratteri che la rendono un sublime negativo, l'eternità, la disperazione, le tenebre. L'eterno è sublime, perché ti mostra un di là sempre allo stesso punto, per quanto tu ti ci avvicini; la disperazione è sublime, perché ti mostra un fine non possibile a raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra è sublime, come annullamento della forma e morte della fantasia, per quella stessa ragione che è sublime la morte, il male, il nulla. Leggete la scritta sulla porta dell'inferno. Ne' primi tre versi è l'eterno immobile che ripete se stesso, dolore, dolore e dolore, quel luogo, quel luogo e quel luogo, per me, per me e per me, insino a che in ultimo l'eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:

Lasciate ogni speranza voi che entrate.

La luce, il "dolce lome", rende sublimi le tenebre, morte del sole e delle stelle e dell'occhio, come è "l'aer senza stelle", e il "loco d'ogni luce muto", e quel "ficcar lo viso al fondo" e "non discernere alcuna cosa". Certo, l'eternità, le tenebre e la disperazione sono caratteri comuni a tutto l'inferno; ma solo qui sono poesia, quando l'inferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione nella gagliardia e freschezza delle prime impressioni. Appresso, diventano spettacolo ordinario, come è il sole, visto ogni giorno.

E Dante, che parte da princìpi preconcetti nelle sue costruzioni scientifiche, quando è tutto nel realizzare e formare i suoi mondi, opera con piena spontaneità, abbandonato alle sue impressioni. Il canto terzo è il primo apparire dell'inferno, e come ci si sente la prima impressione, come si vede il poeta esaltato, turbato dalla sua visione, assediato di forme, di fantasmi, impazienti di venire alla luce! In quel "diverse voci, orribili favelle" ecc., non ci è solo il grido de' negligenti: ci è lì tutto l'inferno, che manda il suo primo grido. Quel canto del sublime è una sola nota musicale variamente graduata, è l'eterno, il tenebroso, il terribile, l'infinito dell'inferno, che invade e ispira il poeta e vien fuori co' vivi colori della prima impressione, è il vero canto del regno de' morti, della "morta gente", è l'albero della vita, che il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa, e ne toglie la speranza:

Lasciate ogni speranza voi che entrate.

E ne toglie le stelle:

risonavan per l'aer senza stelle.

E ne toglie il tempo:

facevano un tumulto il qual s'aggira

sempre in quell'aria senza tempo tinta.

E ne toglie il cielo:

non isperate mai veder lo cielo.

E ne toglie Dio:

ch'hanno perduto il ben dello intelletto.

Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza contorni, cerchio, loco, null'altro: la diresti natura vuota, se non la riempissero l'eternità e le tenebre e la morte e la disperazione. Nel regno de' violenti prende una forma. Si esce dal sublime: si entra nel bello negativo. Incontri tutto ciò che è figura, ordine, regolarità, proporzione in terra; anzi con vocabolo umano è chiamata città, la città di Dite. Vedi selve, laghi, sepolcri; e l'effetto poetico nasce dal trovare la stessa figura, ma spogliata di tutti gli accessorii che la rendono bella in terra.

Non frondi verdi, ma di color fosco:

non rami schietti, ma nodosi e involti

non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.

La natura spogliata della sua vita, del suo cielo, della sua luce, delle sue speranze, è un sublime che ti gitta nell'animo il terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello negativo pieno di strazio e di malinconia. È la natura snaturata, depravata, a immagine del peccato: con la virtù se n'è ita la bellezza, sua faccia.

Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita nelle pene. Perché il concetto nella natura sta immobile come nell'architettura e nella scultura; dove nelle pene acquista ogni varietà di attitudini e di movenze. Le pene sono la coscienza fatta materia, e qui esprimono la violenza della passione. In quella natura eterna e tenebrosa odi un mugghio, "come fa mar per tempesta", e il rovescio della grandine, e il cozzo delle moltitudini: moti disordinati, violenti, come i moti dell'animo. Vedi tombe ardenti, laghi di sangue, alberi che piangono e parlano, la natura sforzata e snaturata dal peccatore. Gli strani accozzamenti producono l'effetto del maraviglioso e del fantastico, ma il fantastico è presto vinto e ti piglia il raccapriccio e l'orrore. Il poeta prende in troppa serietà il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderti con colpi di scena: tocca e passa; e non vuol fare effetto sulla tua immaginazione, vuol colpire la tua coscienza. Dove il fantastico è più sviluppato, è nella selva de' suicidi; ma anche lì vien subito la spiegazione, e la maraviglia dà luogo a una profonda tristezza.

Ma il concetto non ha ancora la sua subiettività, non è ancora anima. Un primo grado di questa forma è nel demonio. Cielo e inferno sono stati sempre popolati di legioni angeliche e sataniche, che riempiono l'intervallo tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e Satana. È la storia del bene e del male che si sviluppa nella nostra anima, un progressivo indiarsi o indemoniarsi. Diversi di nomi e di forme secondo le religioni e le civiltà, i demòni hanno per base i diversi gradi del male, e per forma il gigantesco e il mostruoso, il puro terrestre, il bestiale giunto all'umano, e spesso preponderante, come nella sfinge, nella chimera, in Cerbero. Il demonio di Dante non ha più la sua storia, come in terra, spirito tentatore accanto all'uomo e ribelle e rivale di Dio. Qui è immobilizzato come l'uomo; la sua storia è finita; cosa gli resta? Soffrire e far soffrire, vittima e carnefice a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del peccato che flagella nell'uomo. Il Satana di Milton e Mefistofele, che combattono contro Dio e contro l'uomo, erano compiute persone poetiche. Altra è qui la situazione, e altro è il demonio. Esso è il vinto di Dio, e meno che uomo, perché non è dell'uomo che una sua parte sola, il peccato. È piuttosto tipo, specie, simbolo, che persona. È il più basso gradino nella scala degli esseri spirituali, lo spirito tra l'umano e il bestiale, in cui l'intelletto è ancora istinto e la volontà è ancora appetito. Figure vive e mobili della colpa, ma figure, semplice esteriorità: non carattere, non passione, non intelligenza, non volontà. Fra gl'incontinenti e i violenti il demonio è tragico e serio: è azione mimica e tutta esterna, passione tradotta in moti e gesti, senza la parola, salvo brevi imprecazioni. La natura ti dà figura e colore: qui la figura si muove e il colore si anima, è la figura in azione. Il poeta ha scossa la polvere dalle antiche forme pagane, e le ha rifatte e rinnovate. Come a costruire il suo inferno toglie alla terra le sue forme, e strappandole dal circolo loro assegnato, le compone diversamente e ti crea una nuova natura; così ad esprimere lo spirito toglie dalla mitologia tutte le forme demoniache, Minos Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le arpie, le furie, e le trasporta nel suo inferno: le trova vuote e libere, spogliate di concetto, di vita e di religione, e le ricrea, le battezza, impressovi sopra il suo pensiero e la sua religione. Il demonio meno lontano dall'uomo è Caronte, in cui vien fuori l'apparenza di un carattere: impaziente rissoso, manesco, che grida e batte. Il poeta si è ben guardato di sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave, e non fa dissonanza con la solennità della natura infernale, dove si trova collocata. Minos è il giudizio rappresentato in modo affatto esteriore e plastico, e rapido come saetta:

dicono e odono e poi son giù vòlte.

Le altre figure sono schizzi, appena disegnati; ingegnoso è il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle più belle ottave dell'Ariosto.

Noi concepiamo oramai la costruzione de' singoli canti. Il poeta comincia col porci innanzi la natura del luogo e la qualità della pena; il demonio ora precede, ora vien subito dopo; poi vedi peccatori presi insieme e misti, non ancora l'individuo, ma l'uomo collettivo, gruppi di mezzo a' quali spesso si stacca l'individuo e tira la tua attenzione.

I gruppi sono l'espressione generale del sentimento che riempie i peccatori nella società infernale; sono la parentela del delitto, dove trovi nello stesso lago di sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.

Come nella natura e nel demonio, così ne' gruppi l'aspetto è dapprima severo e tragico. Essi esprimono il sublime dello spirito la disperazione. L'uomo ha bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui tenda; al pensiero succede pensiero; il cuore vive quando da sentimento germoglia sentimento; l'uomo vive quando è in un'onda assidua di pensieri e di sentimenti; la disperazione è l'annullamento della vita morale, la stagnazione del pensiero e del sentimento, la morte, il nulla, il caos, le tenebre dello spirito, un sublime negativo. Come il sublime delle tenebre è nella luce che muore, il sublime della disperazione è nella morte della speranza:

nulla speranza gli conforta mai

non che di posa, ma di minor pena.

L'espressione estetica della disperazione è la bestemmia, violenta reazione dell'anima, innanzi a cui tutto muore, e che nel suo annichilamento involge l'universo:

Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,

l'umana specie e il luogo e il tempo e 'l seme

di lor semenza e di lor nascimenti.

La passione trasforma la faccia dell'uomo, abitualmente tranquilla, il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia negli occhi: momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne' suoi gruppi. Gli avari stanno col pugno chiuso, gl'irosi si lacerano le membra: violenza di moti appassionati, niente che sia basso o vile: puoi abborrirli, non puoi disprezzarli.

Immaginate una piramide. Nella larghissima base vedete la natura infernale. Più su è il demonio, figura bestiale in faccia umana, bestia talora in tutto, mai in tutto uomo. Alzate ancora l'occhio, e vedete gruppi nella violenza della passione. È la stessa idea che si sviluppa e si spiritualizza, insino a che da questo triplice fondo si eleva sulla cima la statua, l'individuo libero, l'idea nella sua individuale realtà, e più che l'idea, se stesso nella sua libertà. È di mezzo a quella folla confusa, a quei gruppi, che escono i grandi uomini dell'inferno o piuttosto della terra; è da questa triplice base dell'eternità che esce fuori il tempo e la storia e l'Italia e più che altri Dante come uomo e come cittadino.

L'inferno degl'incontinenti e de' violenti è il regno delle grandi figure poetiche. Qui trovi come in una galleria di personaggi eroici Francesca, Farinata, Cavalcanti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Capaneo, Dante, il Fato, Dio e la Fortuna. Sono in presenza forze colossali, la energia della passione e la serenità del fato. Qui è Francesca eternamente unita al suo Paolo, là è la Fortuna che non ode le imprecazioni degli uomini e beata si gode. Ora ti percote il suono della divina giustizia che in eterno rimbomba; ora ti stupisce Capaneo che tra le fiamme oppone sè a tutte le folgori di Giove. Su questo fondo tragico s'innalza la libera persona umana e vi si spiega in tutta la ricchezza delle sue facoltà. Qui usciamo dalle astrattezze mistiche e scolastiche, e prendiamo possesso della realtà. La donna non è più Beatrice, il tipo realizzato de' trovatori, fluttuante ancora tra l'idea e la realtà; qui acquista carattere, storia, passioni, una ricca e vivace personalità, è Francesca da Rimini, la prima donna del mondo moderno. L'uomo non è più il santo con le sue estasi e le sue visioni; qui ha la sua patria, il suo uffizio, il suo partito, la sua famiglia, le sue passioni e il suo carattere; è Farinata, è Cavalcanti, è Brunetto, è Pier delle Vigne, è Dante Alighieri, alla cui fiera natura Virgilio applaude:

... ... Alma sdegnosa,

benedetta colei che in te s'incinse!

L'inferno dà loro una realtà più energica, creando nuove immagini e nuovi colori. Pier delle Vigne giura "per le nuove radici del suo legno". Farinata dice:

ciò mi tormenta più che questo letto.

All'annunzio della morte del figlio, Cavalcanti

supin ricadde e più non parve fuora.

Brunetto raccomanda il suo Tesoro, nel quale si sente vivere ancora. Capaneo può dire: "Qual i' fui vivo, tal son morto". E Francesca ricorda il tempo felice nella miseria. L'inferno è il loro piedistallo, sul quale si ergono col petto e con la fronte, affermando la loro umanità. Nascono situazioni e forme novissime, che danno rilievo alle figure e a' sentimenti.

Questo mondo tragico, dove l'impeto della passione e la violenza del carattere mette in gioco tutte le forze della vita, ha la sua perfetta espressione in questi grandi individui, rimasti così vivi e giovani e popolari, come Achille ed Ettore. È il mondo della grande poesia, della epopea e della tragedia. E ora quale contrasto! Lasciamo appena le falde dilatate di foco e la rena che s'infiamma come esca sotto fucile, e ci troviamo in una pozzanghera che fa zuffa con gli occhi e col naso. Lasciamo i tragici demòni dell'antichità, i centauri e le arpie, e incontriamo diavoli con le corna e armati di frusta, e vilissimi uomini che alle prime percosse scappano senz'aspettar le seconde nè le terze. In luogo di Capaneo con la fronte levata, il primo che vediamo ha gli occhi bassi, vergognoso di mostrarsi; e Dante, così riverente e pietoso finora e anche sdegnoso, diviene maligno e sarcastico, e compone per la prima volta il labbro ad un sorriso sardonico. Chiama "salse pungenti" quel letamaio,

che dagli uman privati parea mosso

. Un altro lo sgrida:

... ... "Perché se' tu sì ingordo

di riguardar più me che gli altri brutti?"

E Dante, che lo vede col capo lordo tanto che non parea "s'era laico o cherco", gli ricorda crudelmente di averlo veduto in terra co' capelli asciutti. E quegli esprime il suo dolore, "battendosi la zucca". Tutto è mutato: natura, demonio e uomo, immagini e stile. Cadiamo in pieno plebeo. Chi sono questi uomini? Sono adulatori e meretrici dannati alla stessa pena: gli uni vendono l'anima, le altre vendono il corpo. Sentite che noi passiamo in un altro mondo, nel mondo de' fraudolenti.

Esteticamente, il mondo de' fraudolenti è la prosa della vita; precipitata dal suo piedistallo ideale, e divenuta volgarità. È la passione che si muta in vizio, il carattere che diviene abitudine, la forza che diviene malizia. La passione è poetica, perché ha virtù di concitare tutte le forze dell'anima, sì ch'elle prorompano di fuori liberamente: il vizio è la passione fatta abitudine, ripetizione degli stessi atti, un fare perché si è fatto; è l'artista divenuto artefice, l'arte divenuta mestiere. L'uomo appassionato spiritualizza la sua azione, ci mette dentro se stesso, ma nel vizioso l'anima è sonnolenta, la sua azione è stupida materia, atto meccanico a cui lo spirito rimane estraneo. La passione produce il carattere, la forte volontà, che è la stessa passione in continuazione; il vizio ha compagna la fiacchezza e bassezza dell'anima, non essendo altro la bassezza che l'abdicazione e l'apostasia della propria anima. I grandi caratteri sicuri di sè hanno a loro istrumento la forza, impetuosi fino all'imprudenza, semplici fino alla credulità; gli animi fiacchi hanno a loro istrumento la malizia, coscienza della loro impotenza, e, pipistrelli notturni, assaltano alle spalle e non osano guardare in viso.

In questo mondo il di fuori è mutato, perché mutato è il di dentro, ove non trovi più caratteri e passioni, ma vizio, bassezza e malizia, lo spirito oscurato e materializzato, la dissoluzione della vita. A quei cerchi indeterminati, a quella città rosseggiante di Dite, nomi e figure terrene, succede un non so che, una cosa senza nome, che il poeta chiama bizzarramente "Malebolge", una natura sformata e in dissoluzione, ripe scoscese, scogli mobili che fanno da ponticelli, e giù valloni paludosi, dove le acque finora impetuose e correnti stagnano e si putrefanno, valloni angusti, bolge, valigie, borse, che stringendosi più e più vanno a finire in un pozzo: natura piccola, in rovina e in putrefazione. Al demonio mitologico iroso e appassionato succede il diavolo cornuto, essere grottesco, o piuttosto i diavoli che vanno in frotte, e si mescolano in ignobili parlari con la gente più abbietta, e canzonano e sono canzonati, maliziosi, bugiardi, plebei, osceni. Al vivo movimento delle bufere e delle grandini e delle fiamme succede la materia in decomposizione, quanti strazi di carne umana ti offrono i campi di battaglia e quante malattie ti offre lo spedale. Tali la natura, il demonio, le pene. Vedi ora l'uomo. La faccia umana è rimasta finora inviolata: innanzi all'immaginazione la passione invermiglia la faccia di Francesca, e la grandezza dell'anima pare nella faccia dell'uomo che si leva dritto dalla cintola in su. Qui la faccia umana sparisce: hai caricature e sconciature di corpi. Uomini cacciati in una buca, capo in giù, piedi in su; vólti travolti in su le spalle, sì che il pianto scende giù per le reni; visi, occhi e corpi imbacuccati e incappucciati; musi umani fuor della pegola a modo di ranocchi; corpi, altri smozzicati, accismati, altri marciti e imputriditi, scabbiosi, tisici, idropici. Di questa figura umana deturpata e contraffatta l'immagine più viva è Bertram dal Bormio, il cui busto si fa lanterna del suo capo che porta pesol per le chiome. In questo mondo prosaico e plebeo, che comincia con Taide e finisce con mastro Adamo, la materia ovvero la parte bestiale prevale tanto, che spesso siamo in sul domandarci: - Costoro sono uomini o bestie? - Non sono ancora bestie, e l'uomo già muore in loro:

che non è nero ancora e il bianco muore.

Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana; e la più profonda concezione di Malebolge è questa trasformazione dell'uomo in bestia e della bestia in uomo: hanno l'appetito e l'istinto della bestia, hanno la coscienza dell'uomo. Si sanno uomini e sono bestie; e qui è la pena, nella coscienza umana che loro è rimasta.

La forma estetica di questo mondo è la commedia, rappresentazione de' difetti e de' vizi. Fra tanta fiacchezza della personalità il grande uomo, l'individuo, è gittato nell'ombra, e vien su il descrittivo, l'esteriorità. Nell'inferno tragico le descrizioni sono sobrie e rapide, l'interesse principale è negli attori che prendono la parola: qui è un gregge muto, visto da lontano. Virgilio dice a Dante: - Vedi là Mirra, vedi Giasone, vedi Manto. - Appena è se qualche epiteto ti segna in fronte alcuno de' più grandi personaggi, come si fa di Giasone:

e per dolor non par lacrima spanda.

Prima dite: "Il canto di Francesca, di Farinata, di ser Brunetto Latini" ; ora dite: "Il canto de' ladri, de' falsari, de' truffatori": vi sono gruppi, non individui; vi è il descrittivo, manca il drammatico. Manca la grandezza negli attori, e manca la pietà negli spettatori. La figura umana così torta, che il pianto degli occhi bagnava le natiche, cava a Dante lacrime; l'"homo sum" si sente colpito in lui; ma Virgilio lo sgrida:

Ancor sei tu degli altri sciocchi?

Qui vive la pietà, quand'è ben morta.

Abbonda il descrittivo; l'immaginazione di Dante è così robusta, che avendo a fare con oggetti così fuori della natura, non che sentirsi impacciata, pare che scherzi: con tanta facilità e spontaneità esprime le più varie e strane attitudini: la fiamma parla come lingua d'uomo, le zanche piangono e fremono. Il più grande sforzo dell'immaginazione umana è la trasformazione di uomini in bestie, nel canto ventesimoquinto, quantunque la soverchia minutezza generi sazietà.

Fra tanti gruppi sorge qua e là alcuno individuo in cui si sviluppa con più chiara coscienza il concetto di Malebolge. Un lato serio di questo concetto è lo spirito che varca il limite assegnatogli. Se la ragione potesse veder tutto,

mestier non era partorir Maria.

L'esperienza avea le sue colonne d'Ercole; la ragione avea pure le sue colonne. Questo concetto qui è serio, non è sublime, nè tragico; perché l'uomo, che con la temerità oraziana sforza la natura, è qui non dirimpetto a Dio come Prometeo e Capaneo, ma colpito e soggiogato, senza che in lui paia vestigio di ribellione, di orgoglio e di violenza:

... ... Dove rui,

Anfiarao? perché lasci la guerra?

E non restò di rovinare a valle,

fino a Minòs che ciascheduno afferra.

L'uomo di Orazio è sublime, perché lo vedi nell'opera, senti in lui la voluttà del frutto proibito, malgrado Dio e la natura. Anfiarao è un puro nome; sublime di terrore è quel suo precipitare a valle, mostrandocelo successivamente inabissarsi, ma il grottesco vien subito dopo:

Mira che ha fatto petto delle spalle:

perché volle veder troppo davante,

di rietro guarda e fa ritroso calle.

Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto nelle acque per giudizio di Dio, "come a lui piacque". Pure un po' dell'audacia di Ulisse è ancora in Dante, che gli mette in bocca nobili parole, e ti fa sentire quell'ardente curiosità del sapere che invadeva i contemporanei. Ti par di assistere al viaggio di Colombo. Il peccato diviene virtù. Se la logica ghibellina pone in inferno l'autore dell'agguato contro Troia, radice dell'impero sacro romano, la poesia alza una statua a questo precursore di Colombo, che indica col braccio nuovi mari e nuovi mondi, e dice a' compagni:

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza.

Ulisse è il grand'uomo solitario di Malebolge. È una piramide piantata in mezzo al fango. Il comico penetra da tutt'i lati, traendosi appresso il lordo, l'osceno, il disgustoso: lo spirito, divenuto malizia, è qui decaduto, degradato; e con lui si oscura la nobile faccia umana. Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e fasciata dalle fiamme. Siamo in un mondo comico.

La regina delle forme comiche è la caricatura, il difetto colto come immagine e idealizzato. Al che si richiede che il personaggio operi ingenuamente e brutalmente, come non avesse coscienza del suo difetto, a quel modo che si vede in Sancio Panza e in don Abbondio, eccellenti caratteri comici. I dannati di Malebolge sono così fatti: essi sono cinici e perciò ridicoli, come i diavoli nel canto ventesimosecondo, rissosi, abietti, vanitosi, bassamente feroci ne' loro atti. Così sono i ladri, i truffatori, i barattieri, plebe in cui il vizio è così connaturato, che non se ne accorge più. Tale è Nicolò terzo vano del suo papale ammanto, che crede Dante venuto nell'inferno apposta per veder lui. Tali sono pure Sinone e maestro Adamo. Essi si mostrano nella loro naturalezza, e possono essere rappresentati nella forma diretta e immediata, isolando il difetto dagli accessorii e idealizzandolo, divenuto un contromodello, l'immagine opposta a quel tipo, a quel modello di perfezione che ciascuno ha in mente: qui è la caricatura. Le concezioni di Dante sono di un comico plebeo della più bassa lega: sia esempio la rissa tra Sinone e maestro Adamo. Si rimane nel buffonesco, l'infimo grado del comico. Quest'uomo, così possente creatore d'immagini nell'inferno tragico, qui si sente arido, freddo, in un mondo non suo. Le situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non è artistico, non ha la sua immagine che è la caricatura, nè la sua impressione che è il riso. Due persone in rissa cadono in un lago d'acqua bollente che li divide. Situazione comica, se mai ce ne fu. Il poeta dice:

Lo caldo sghermidor subito fue.

Espressione vivace, ma che non sveglia nessuna immagine e ti lascia freddo. Non ha saputo cogliere quel movimento, quella smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. La pancia di mastro Adamo, che sotto il pugno di Sinone "sonò come fosse un tamburo", è una felice caricatura; ma è una freddura il dire:

e mastro Adamo gli percosse 'l volto

col pugno suo che non parve men duro.

Manca spesso a Dante la caricatura, e i suoi versi più comici non fanno ridere. Perché a fare la caricatura bisogna fermare l'immaginazione nell'oggetto comico, spassarcisi, obbliarsi in quello, alzarlo a contromodello. Dante non ha questo sublime obblio comico, non ha indulgenza, nè amabilità. Teme di sporcarsi tra quella gente, e se ode, se ne fa rimproverare da Virgilio, e se ci sta, se ne scusa:

Ahi fera compagnia! Ma in chiesa

coi santi e in taverna coi ghiottoni.

Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno; e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale.

Il riso muore, quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio, e non che sentirne vergogna vi si pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio artista, che si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona e se ne fa un'aureola, atteggiandosi e situandosi nel modo più acconcio a dire: - Miratemi -; più acconcio a dare spicco al suo vizio. La bestia non cela il suo vizio e non arrossisce; il rossore è proprio della faccia umana. L'uomo consapevole del suo difetto, che vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia umana e dicesi "sfacciato" o "sfrontato". Qui la caricatura uccide se stessa, il comico giunto alla sua ultima punta si scioglie; e n'esce un sentimento di supremo disgusto e ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria abbiezione predicata e portata in trionfo aggiunge al disgusto un sentimento che tocca quasi l'orrore. Qui Dante è nel suo campo. Il suo eroe è Vanni Fucci. Mastro Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza, Vanni Fucci ha avuto la coscienza e l'ha soffocata; sono i due estremi nella scala del vizio; l'uno non è mai salito fino all'uomo; l'altro è passato per l'uomo ed è ricaduto nella bestia. Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale, e sceglie le circostanze più acconce a darvi risalto:

Vita bestial mi piacque e non umana,

siccome a mul ch'io fui. Son Vanni Fucci

bestia, e Pistoia mi fu degna tana.

Ecco l'uomo che fa le fiche a Dio, il Capaneo di Malebolge, l'umano divenuto bestiale e idealizzato come tale.

Ma l'umano non muore mai in tutto. L'uomo diviene bestia, ma la bestia torna uomo. E con senso profondo Dante anche sulla faccia sfrontata di Vanni Fucci scoperto ladro gitta il rossore della vergogna:

e di trista vergogna si dipinse.

L'uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergogna, in luogo di mostrarlo al naturale (ciò che produce la caricatura) cerca occultarlo sotto contraria apparenza: il poltrone fa il bravo. Nasce il contrasto tra l'essere e il parere: la situazione divien comica, e la sua forma è l'ironia. Lo spettatore indulgente e che vuole spassarsi a sue spese finge di crederlo e di secondarlo; accetta come seria l'apparenza che si dà, anzi la carica ancora di più; fa il bravo, ed egli lo chiama un "Orlando", ma accompagnando le parole di un cotale ammiccar d'occhi che esprima scambievole intelligenza, di un tuono di voce in falsetto, di un riso equivoco, che vuol dire: - Io ti conosco. - Perciò l'essenziale dell'ironia non è nell'immagine, ma nel sottinteso: è il riflesso che succede allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma delicata, perché lo spettatore, alla vista del difetto che altri cerca di mascherare, non sente collera, non gli strappa la maschera dal viso, anzi se la mette egli stesso e serba una compostezza e una pulitezza, equivoca ne' movimenti e ne' gesti. Forma di tempi civili, assai rara nelle età barbare e nelle poesie primitive. Dante, accigliato, brusco, tutto di un pezzo, com'è ne' suoi ritratti, ha troppa bile e collera, e non è buono nè alla caricatura, nè all'ironia. Ma dalla sua fantasia d'artista è uscita una di quelle creazioni, che sono le grandi scoperte nella storia dell'arte, un mondo nuovo: il "nero cherubino", che strappa a san Francesco l'anima di Guido da Montefeltro, è il padre di Mefistofele. Egli crea il diavolo, gli dà il suo concetto e la sua funzione. Il diavolo è l'ironia incarnata: non ci è uomo tanto briccone che il diavolo non sia più briccone di lui, e capite che non è disposto a guastarsi la bile per le bricconerie degli uomini. L'uomo può ingannare un altro uomo, ma non può ficcarla al diavolo, perché il diavolo nel suo senso poetico è lui stesso, la sua coscienza che risponde con un'alta risata a' suoi sofismi, e gli fa il controsillogismo, e gli dice beffandolo:

... ... Forse

tu non sapevi ch'io loico fossi!

Il brutto come il bello muore nel sublime. E il brutto è sublime quando offende il nostro senso morale ed estetico e ci gitta in violenta reazione. Scoppia la collera, l'indignazione, l'orrore: il comico è immediatamente soffocato. Quando veggo un difetto rivelarsi all'improvviso, uso la caricatura. Quando veggo un difetto che cerca mascherarsi, prendo la maschera anch'io e uso l'ironia. Ma quando quel difetto mi offende, mi sfida, mi provoca, si mette dirimpetto a me come contraddizione al mio intimo senso, la mia coscienza così audacemente negata e contraddetta reagisce: io strappo al vizio la maschera e lo mostro qual è, nella sua laida nudità. La caricatura e l'ironia si risolvono in una forma superiore, il sarcasmo, la porta per la quale volgiamo le spalle al comico e rientriamo nella grande poesia.

Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono, ma per morire: nasce la caricatura, ed è guastata; spunta la maschera, ed è strappata. E la morte viene da questo, che nella forma sarcastica del brutto ci è l'idea che l'uccide, il suo contrario. Nel canto de' simoniaci il sarcasmo fa la sua splendida apparizione. Il comico muore sotto l'ira di Dante. L'antitesi tra quello che è di fuori e quello che è nella sua anima scoppia in ravvicinamenti innaturali, come "calcando i buoni e sollevando i pravi", "Dio d'oro e d'argento"; e spesso in parole a doppio contenuto, che è l'immagine del sarcasmo. Tale è la parola rimasa proverbiale, con che è qualificata la servilità della Chiesa. Parimente chiama "adulterio" la simonia e "idolatria" l'avarizia, parole, nelle quali entrano come elementi la santità del matrimonio e il vero Dio: in una sola immagine c'è il brutto e ci è l'idea che lo condanna.

Ma il sarcasmo dee purificare e consumare se stesso. Finché rimane nel particolare e nel personale, il linguaggio è acre, bilioso: hai Giovenale e Menzini. Il poeta, non che rimanere imprigionato in quello spettacolo, dee spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare l'orizzonte, essere eloquente, voce di verità, espressione impersonale della coscienza. Certo, in quel canto de' simoniaci vive immortale la vendetta dell'uomo ingannato che anticipa a Bonifazio l'inferno, e del ghibellino e del cristiano che vede nel papato temporale una pietra d'inciampo e di scandalo. Ma i sentimenti e le passioni personali, se hanno ispirato il poeta e resa terribilmente ingegnosa la sua fantasia, non penetrano nella rappresentazione. Bisogna sapere la storia per indovinare i terribili incentivi dell'alta creazione. Ciò che qui senti è la convinzione, la buona fede del poeta, la sincerità e l'impersonalità della sua collera: onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d'immagini e di concetti. Prima Dante è in collera con Nicolò, pinto in pochi tratti vano, piccolo, col cervello e co' sensi nel piede. E comincia col "tu", e l'assale corpo a corpo, con ironia amara che si trasforma nel pugnale del sarcasmo:

e guarda ben la mal tolta moneta,

ch'esser ti fece contra Carlo ardito.

Ma nel pendìo dell'ingiuria si contiene d'un tratto, passaggio meritamente ammirato: la piccola persona di Nicolò scomparisce; sottentra il "voi", i papi, il papato; le idee guadagnano di ampiezza senza perdere di energia, e da ultimo la collera svanisce in una certa tristezza pura di ogni stizza; è un deplorare, non è più un inveire:

Ahi Costantin, di quanto mal fu matre,

non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre!

Tale è Malebolge: miniera inesausta di caratteri comici, concezione delle più originali, dove il comico è posto ed è sciolto. Poco felice nel maneggio delle forme comiche, il poeta è insuperabile quando se ne sviluppa, mutato il riso in collera, come nella sua invettiva, nella pena di Bertram dal Bormio, nella rappresentazione di Vanni Fucci. Rimane un fondo comico che aspetta ancora il suo artista. Pure in quella materia appena formata vive immortale il suo nero cherubino.

Nel pozzo de' traditori la vita scende di un grado più giù: l'uomo bestia diviene l'uomo ghiaccio, l'essere petrificato, il fossile. In questo regresso dell'inferno, in questo cammino a ritroso dell'umanità siamo giunti a quei formidabili inizi del genere umano, regno della materia stupida, vuota di spirito, il puro terrestre, rappresentato ne' giganti, figli della terra, nella loro lotta contro Giove, natura celeste e spirituale, inferiore di forza fisica, ma armato del fulmine:

... ... con minaccia

Giove dal cielo ancora, quando tuona

Con questo mito concorda la storia biblica degli angeli ribelli. Qui all'ingresso trovi i giganti; alla fine Lucifero: mitologia e Bibbia si mescolano, espressioni della stessa idea. La lotta è finita: i giganti sono incatenati; Lucifero è immenso e stupido carname, il gradino infimo nella scala de' demòni. Il gigantesco è la poesia della materia; ma qui, vuoto e inerte, è prosa. Tra' giganti e Lucifero stanno i dannati fitti nel ghiaccio. Le acque putride di Malebolge, ventate dalle enormi ali di Lucifero, si agghiacciano, s'indurano, diventano mare di vetro, di dentro a cui traspariscono come festuche i traditori contro i congiunti nella Caina, contro la patria nell'Antenora, contro gli amici nella Tolomea, e contro i benefattori nella Giudecca. La pena è una, ma graduata secondo il delitto. Il movimento si estingue a poco a poco, la vita si va petrificando, finché cessa in tutto la lacrima, la parola e il moto. L'immagine più schietta di questo mondo cristallizzato è il teschio dell'arcivescovo Ruggieri, inanimato e immobile sotto i denti di Ugolino.

L'Ugolino è una delle più straordinarie e interessanti fantasie. E per lui che la vita e la poesia entra in questo mare morto, dove la natura e il demonio e l'uomo è materia stupida e senza interesse. Come concetto morale, il tradimento è la colpa più grave; ma qui manca l'organo della colpa: il grido della coscienza sembra agghiacciato insieme col colpevole. Questo grido può uscire dal petto concitato di Dante spettatore, come è già avvenuto in Malebolge, dove l'invettiva di Dante risolve il comico. Qui ci è di meglio. Tra questi esseri petrificati Dante gitta il suo Ugolino, ghiacciato con gli altri, come traditore egli pure, ma col capo sul capo di Ruggieri, perché insieme egli è il suo tradito e il suo carnefice. È la vittima che qui alza il grido contro il traditore, e gli sta eternamente co' denti sul capo, saziando in quello il suo odio, istrumento inconscio della vendetta di Dio. Così è nato l'Ugolino, il personaggio più ricco, più moderno, più popolare di Dante dove l'analisi è più profonda e più sviluppata, nelle sue straordinarie proporzioni così umano e vero.

Prendete ora una carta topografica dell'inferno, e guardate questa piramide capovolta, a forma d'imbuto. Vedete l'immensa base alla cima, senza figura altra che di cerchi, fra le tenebre eterne; e poi quei cerchi prendon figura di città rosseggiante di fiamme, e la città di bolgia putrida e puzzolenta, e la bolgia di pozzo entro il quale è petrificata la natura; in cima l'infinito, alla fine il tristo buco

sopra 'l qual pontan tutte le altre rocce;

e voi avete così l'immagine visibile di questo inferno estetico. Gli è come nelle rivoluzioni. Nel primo entusiasmo tutto è grande; poi vien fuori il sanguinario, il feroce, l'orribile, finché da' più bassi fondi della società sale su il laido, l'abietto e il plebeo. Questa decomposizione e depravazione successiva della vita è l'Inferno.

L'Inferno è l'uomo compiutamente realizzato come individuo, nella pienezza e libertà delle sue forze. E può misurare la grandezza dell'opera, chi vede gli abbozzi di Dino Compagni, o lo scarno Ezzelino, o le rozze formazioni de' misteri e delle leggende. L'individuo era ancora astratto e impigliato nelle formole, nelle allegorie e nell'ascetismo. In quelle vuote generalità ci è la donna e l'uomo, come genere, come simbolo, come l'anima; manca l'individuo. E manca tanto, che spesso non ha un nome, ed è la "mia donna", o "un giovine", "un santo uomo". Non un nome solo era rimasto vivo nel mondo dell'arte, fra tante liriche e leggende. Dante volea scrivere il mistero dell'anima; si cacciò tra allegorie e formole, ed ecco uscirgli dalla fantasia l'individuo, volente e possente, nel rigoglio e nella gioventù della forza, spezzato il nocciolo dove lo avea chiuso il medio evo. I pittori disegnavano santi e cupole, i filosofi fantasticavano sull'ente; i lirici platonizzavano, gli ascetici contemplavano e pregavano: Dante pensava l'inferno; e là, tra' furori della carne e l'infuriar delle passioni, trovava la stoffa di Adamo, l'uomo com'è impastato, con la sua grandezza e con la sua miseria, e non descritto, ma rappresentato e in azione, e non solo ne' suoi atti, ma ne' suoi motivi più intimi. Così apparvero sull'orizzonte poetico Francesca, Farinata, Cavalcanti, la Fortuna, Pier delle Vigne, Brunetto, Capaneo, Ulisse, Vanni Fucci, il "nero cherubino", Nicolò terzo e Ugolino. Tutte le corde del cuore umano vibrano. Vedi attorno a questa schiera d'immortali, turba infinita di popolo nella maggior varietà di attitudini, di forme, di sentimenti, di caratteri, che ti passano avanti, alcuni appena sbozzati, altri numero e nome, altri segnati in fronte di qualche frase indimenticabile, che li eterna, come Taide, Mosca, Giasone, Omero, Aristotile, papa Celestino, Bonifazio, Clemente, Bruto, Bocca degli Abati, Bertram dal Bormio. Nel regno de' morti si sente per la prima volta la vita nel mondo moderno. Come è bella la luce, il "dolce lome", a Cavalcanti! Quanta malinconia è in quella selva de' suicidi, spogliata del verde! Come è commovente Brunetto, che raccomanda a Dante il suo Tesoro, e Pier delle Vigne che gli raccomanda la sua memoria! Come ride quel giardino del peccato innanzi a Francesca! Col vivo sentimento della dolce vita, della bella natura, è accompagnato il sentimento della famiglia. Quel padre che cade supino, udendo la morte del figlio, e Ugolino che dannato a morire di fame guarda nel viso a' figliuoli, e Anselmuccio che gli domanda: - Che hai? - E Gaddo che gli dice: - Perché non mi aiuti? - Sono scene solitarie della poesia italiana. Ciascuno è in una situazione appassionata. I sentimenti spinti alla punta idealizzano e ingrandiscono gli oggetti. Tutto è colossale, e tutto è naturale E in mezzo torreggia Dante, il più infernale, il più vivente di tutti, pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, vendicativo, feroce, col suo elevato sentimento morale col suo culto della grandezza e della scienza anche nella colpa, coi suo dispregio del vile e dell'ignobile, alto sopra tanta plebe, così ingegnoso nelle sue vendette, così eloquente nelle sue invettive.

Queste grandi figure, là sul loro piedistallo rigide ed epiche come statue, attendono l'artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia esseri drammatici. E l'artista non fu un italiano: fu Shakespeare.

Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si metta in quella età della vita che le passioni si scoloriscono, e l'esperienza e il disinganno tolgono le illusioni, e scemata la parte attiva e personale, l'uomo si sente generalizzare, si sente più come genere che come individuo. Spettatore più che attore, la vita si manifesta in lui non come azione, ma come contemplazione artistica, filosofica, religiosa. In quella calma delle passioni e de' sensi era posto l'ideale antico del savio, l'ideale nuovo del santo, fuso insieme in quel Catone, che Dante chiama nel Convito anima nobilissima e la più perfetta immagine di Dio in terra. Catone è il savio antico, pinto come i filosofi, con quella sua lunga barba, in quella calma e gravità della sua decorosa vecchiezza:

degno di tanta riverenza in vista,

che più non dee a padre alcun figliuolo.

Ma è qualcosa di più; è il savio battezzato e santificato, con la fronte radiante, illuminata dalla grazia, sì che pare un sole. Virgilio non comprende questo savio cristianizzato, e parla al Catone di sua conoscenza, ricordando la sua virtù, la sua morte per la libertà, la sua Marzia. E il nuovo Catone risponde: - Marzia, che piacque tanto agli occhi miei, non mi move più; ma se Donna del cielo ti guida, non ci è mestier lusinga:

basta ben che per lei mi richegge.

Che cosa è il Purgatorio? È il mondo dove questo doppio ideale è realizzato: il mondo di Catone o della libertà, dove lo spirito si sviluppa dalla carne e cerca la sua libertà:

Libertà va cercando ch'è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta.

Altro concetto, altra natura, altro uomo, altra forma, altro stile. Non è più l'Iliade, è l'Odissea, è un nuovo poema. Paragonare Inferno e Purgatorio e maravigliarsi che qui non sieno le bellezze ammirate colà, gli è come maravigliarsi che il purgatorio sia purgatorio e non inferno. O, se pur vogliamo maravigliarci di qualche cosa, maravigliamoci che il poeta abbia potuto così compiutamente dimenticare l'antico se stesso, le sue abitudini di concepire, di disporre, di colorire, e seppellito in questo nuovo mondo ricrearsi l'ingegno e la fantasia a quella immagine, e con tanta spontaneità che pare non se ne accorga: obblio dell'anima nella cosa, il secreto della vita, dell'amore e del genio.

L'inferno e il regno della carne, che scende con costante regresso sino a Lucifero. Il purgatorio e il regno dello spirito, che sale di grado in grado sino al paradiso. È là che si sviluppa il mistero, la Commedia dell'anima, la quale dall'estremo del male si riscote e si sente e mediante l'espiazione e il dolore si purifica e si salva. Onde con senso profondo il purgatorio esce dall'ultima bolgia infernale, e Lucifero, principe delle tenebre, e quello stesso per le spalle del quale Dante salendo esce a riveder le stelle.

Ci è un avanti-purgatorio, dove la carne fa la sua ultima apparizione. Il suo potere non è più al di dentro: l'anima è già libera; della carne non resta che la mala abitudine. Gradazione finissima e altamente comica, dalla quale è uscito l'immortale ritratto di Belacqua, caricatura felicissima nella figura, ne' movimenti, nelle parole, e tanto più comica quanto più Belacqua si sforza di rimaner serio, usando un'ironia che si volge contro di lui.

Questo avanti-purgatorio è quasi una transizione tra l'inferno e il purgatorio: il peccato vi è e non v'è; e ancora nell'abitudine non è più nell'anima; il demonio ci sta sotto la forma del serpente d'Eva, involto tra l'erbe e i fiori, cacciato via da due angioli dalle vesti e dalle ali di color verde, simbolo della speranza. Comparisce per scomparire, quasi per far testimonianza che se ne va dalla scena per sempre. Innanzi alla porta del purgatorio scompare il diavolo e muore la carne, e con la carne gran parte di poesia se ne va.

L'anima non appartiene più alla carne, ma l'ha avuta una volta sua padrona e se ne ricorda. La carne non è più una realtà, come nell'inferno, ma una ricordanza. Ne' sette gironi, rispondenti a' sette peccati mortali, le anime ricordano le colpe per condannarle; ricordano le virtù per compiacersene.

Quel ricordare le colpe non è se non l'inferno che ricomparisce in purgatorio per esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtù non è se non il paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e vagheggiato: l'inferno ci sta in rimembranza; il paradiso ci sta in desiderio. Carne e spirito non sono una realtà: la tirannia della carne è una rimembranza; la libertà dello spirito è un desiderio.

Poiché la realtà non è più in presenza, ma in immaginazione, essa vi sta non come azione rappresentata e drammatica, ma come immagine dello spirito, a quel modo che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle cose non presenti, e pingiamo al di fuori quello spettro della mente. Questa realtà dipinta vien fuori nelle pareti e ne' bassirilievi del purgatorio. Nell'inferno e nel paradiso non sono pitture, perché ivi la realtà è natura vivente, è l'originale, di cui nel purgatorio hai il ritratto. Inferno e paradiso sono in purgatorio, ma in pittura, come il passato e l'avvenire delle anime, non presenti agli occhi, ma all'immaginativa. Quelle pitture sono il loro "memento", lo spettacolo di quello che furono, di quello che saranno, che le stimola, mette in attività la loro mente, si che ricordano altri esempli e si affinano, si purgano.

Siamo dunque fuori della vita. Le passioni tornano innanzi alle anime, ma non sono più le loro passioni, sono fuori di esse, contemplate in sè o in altri con l'occhio dell'uomo pentito. Anche le virtù sono estrinseche alle anime, contemplate al di fuori come esempli e ammaestramenti. Le anime sono spettatrici, contemplanti, non attrici. Passioni buone o cattive non sono in presenza e in azione, ma sono una visione dello spirito, figurata in intagli e pitture.

Questa concezione così semplice e vera nella sua profondità è la pittura e la scoltura, l'arte dello spazio, idealizzata nella parola e fatta poesia. Perché il poeta non dipinge, ma descrive il dipinto. La parola non può riprodurre lo spazio che successivamente, e perciò è inefficace a darti la figura, come fa il pennello e lo scarpello. Nè Dante si sforza di dipingere, entrando in una gara assurda col pittore. Ma compie e idealizza il dipinto, mostrando non la figura, ma la sua espressione e impressione: dinanzi all'immaginazione la figura diviene mobile, acquista sentimento e parola.

Le aguglie di Traiano in vista si movono al vento; la vedovella è atteggiata di lagrime e di dolore; nell'attitudine di Maria si legge: "Ecce ancilla Dei"; l'angiolo intagliato in atto soave non sembrava immagine che tace:

Giurato si saria ch'ei dicesse Ave.

Davide ballando sembra più e meno che re; e gli sta di contro Micol, che ammirava,

siccome donna dispettosa e trista.

Erano i tempi di Giotto, e parevano maravigliosi quei primi tentativi dell'arte. Quest'alto ideale pittorico di Dante fa presentire i miracoli del pennello italiano. Il poeta avea innanzi all'immaginazione figure animate, parlanti, dipinte da

Colui, che mai non vide cosa nuova,

ben più vivaci che non gliele potevano offrire i suoi contemporanei.

Più in la il dipinto sparisce: senza aiuto di senso, per sua sola virtù, lo spirito intuisce il bene e il male, ricorda i buoni e i cattivi esempli, vede da se stesso e in se stesso. La realtà non solo non ha la sua esistenza, come cosa sensata, il sensibile; ma neppure come figurativa, in pittura; diviene una visione diretta dello spirito, che opera già libero e astratto dal senso. Nasce un'altra forma dell'arte, la visione estatica. L'anima vede farsi dentro di sè una luce improvvisa, nella quale pullulano immagini sopra immagini come bolle d'acqua che gonfiano e sgonfiano, e l'universo visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore, di modo che il "suono di mille tube" non basterebbe a rompere la contemplazione. Dante trova forme nuove ed energiche ad esprimere questo fenomeno. Le immagini "piovono" nell'alta fantasia; la mente è

... ... sì ristretta

dentro di se', che di fuor non venia

cosa che fosse allor da lei ricetta.

L'immaginativa ne "ruba" di fuori, sì

che uom non s'accorge

perché d'intorno suonin mille tube.

L'anima vòlta in estasi ficca gli occhi nell'immagine con ardente affetto:

come dicesse a Dio: - D'altro non calme -.

Tra queste visioni bellissima è quella del martirio di santo Stefano: un quadro a contrasto, dove tra la folla inferocita che grida: - Martira, martira -, è la figura del santo, la persona già aggravata dalla morte e china verso terra, ma gli occhi al cielo preganti pace e perdono: è il soprastare dell'anima nell'abbandono del corpo.

Siamo dunque in piena vita contemplativa. Il processo della santificazione si sviluppa. Nell'inferno i tumulti e le tempeste della vita reale appassionata dal furore de' sensi: qui entriamo in quel mondo di romiti e di santi, in quel mondo de' misteri e delle estasi, così popolare, nel mondo di Girolamo, di Francesco d'Assisi e di Bonaventura, dove la pittura attingea le sue ispirazioni.

Nella visione estatica lo spirito ha già un primo grado di santificazione, ha conquistato la sua libertà dal senso, ha già il suo paradiso; ma è un paradiso interiore, immagine e desiderio, e non sarà realtà, paradiso reale, se non quando quella luce e quelle immagini, vedute dallo spirito entro di sè, sieno fuori di sè, sieno cose e non immagini. Il purgatorio è il regno delle immagini, uno spettro dell'inferno, un simulacro del paradiso.

Nella visione estatica lo spirito è attivo e conscio; nel sogno è passivo e inconscio: è una forma di visione superiore, non solo senza opera del senso, ma senza opera dello spirito; è visione divina, prodotta da Dio. Perciò il sogno

anzi che 'l fatto sia, sa le novelle;

e l'anima

alle sue vision quasi è divina.

Nel sogno si rivela il significato delle visioni e delle apparenze del purgatorio. Che cosa significano quelle pitture e quelle estasi? che cosa è il purgatorio? È il regno dell'intelletto e del vero, dove il senso è spogliato delle sue belle e piacevoli apparenze, e mostrato qual'è, brutto e puzzolento. L'apparenza è una sirena:

Io son - cantava - io son dolce Sirena,

che i marinari in mezzo al mar dismago,

tanto son di piacere a sentir piena.

Ma una donna santa, la Verità, fende i drappi; e la mostra qual femmina balba e scialba, e mostra il ventre:

quel mi svegliò col puzzo che ne usciva.

Vinto il senso e l'apparenza, si presenta a Dante in sogno l'immagine della vita, non quale pare, ma qual è, la vera vita a cui sospira e che cerca nel suo pellegrinaggio. E vede la vita nella prima delle due sue forme, la vita attiva, lo affaticarsi nelle buone opere per giungere alla beatitudine della vita contemplativa. La sirena è rozzamente abbozzata: manca a Dante il senso della voluttà; senti nel verso stesso non so che intralciato e stanco. Lia è una delle sue più fresche creazioni, personaggio tipico così perfetto nel suo genere, come la Fortuna. La sua felicità non è ancora beatitudine, come è della suora che vive guardando Dio, il suo miraglio; ma appunto perciò è più interessante e poetica, più umana, più vicina a noi questa bella fanciulla, che va tutta lieta pel prato, e coglie fiori e se ne fa ghirlanda e si mira allo specchio. Tale è la prima immagine che il giovine incontra sovente ne' suoi sogni!

L'ultima forma sotto la quale si presenta la realtà è la visione simbolica, dove la forma non significa più se stessa, ma un'altra cosa. Il purgatorio finisce tra' simboli: è il paradiso che si offre all'anima sotto figura. Cristo è un grifone, e il carro su cui sta è la Chiesa, e Dante ha una serie di strane visioni, che rappresentano simbolicamente la storia della Chiesa.

Così la realtà corpulenta e tempestosa dell'inferno si va diradando e sottilizzando per trasformarsi nella vera realtà, lo spirito o il paradiso. Questo processo di carne a spirito è il purgatorio, dove la forma diviene pittura, estasi, sogno, simbolo. Il simbolo già non è più forma, ma puro spirito, lavoro intellettuale. Sotto la figura ci è la nuova e vera realtà, pronta a svilupparsene e comparire essa direttamente.

L'uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi a questo stato dell'anima. Il suo carattere è la calma interiore, assai simile alla tranquilla gioia dell'uomo virtuoso, che nella miseria terrena sulle ali della fede e della speranza alza lo spirito al paradiso. Le ombre sono contente nel fuoco, gli affetti hanno dolci e temperati, il desiderio puro d'inquietudine e d'impazienza. Ne nasce un mondo idillico, che ricorda l'età dell'oro, dove tutto è pace e affetto, e dove si manifestano con effusione le pure gioie dell'arte, i dolci sentimenti dell'amicizia. In questo mondo di pitture e scolture Dante si è coronato di artisti: Casella, Sordello, Guido Guinicelli, Buonagiunta da Lucca, Arnaldo Daniello, Oderisi, Stazio, e ne ha cavato episodi commoventi, che fanno vibrare le fibre più delicate del cuore umano. Ricorderò il suo incontro con Casella, e il ritratto di Sordello, e i cari ragionamenti dell'arte con Guinicelli e Buonagiunta, e l'incontro di Stazio e Virgilio. È un lato della vita nuovo, pur così vero in tempi che la vita intima della famiglia, dell'arte e dell'amicizia era un rifugio e quasi un asilo fra le tempeste della vita pubblica. Come tocca il core l'amicizia di Dante e di Forese, fratello di Corso Donati, il principale nemico di Dante, e quel domandar ch'egli fa di Piccarda! I movimenti improvvisi dell'affetto e della maraviglia sono colti con tanta felicità, che rimangono anche oggi vivi nel popolo, come è l'"o" lungo e roco delle anime che veggon l'ombra di Dante, o il paragone delle pecorelle, e la calma di Sordello,

a guisa di leon quando si posa,

mutata subito in un sì vivace impeto di affetti, e Stazio che corre incontro a Virgilio per abbracciarlo, obliando di essere un'ombra, e il cerchio dell'anime intorno a Dante,

quasi obliando d'ire a farsi belle,

e Casella che se ne spicca e si gitta tra le braccia di Dante:

Oh ombre vane, fuor che nell'aspetto!

tre volte dietro a lei le mani avvinsi,

e tante mi tornai con esse al petto.

Questa intimità, questo tenere nel cuore un cantuccio chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all'arte, alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a' profani, è il mondo rappresentato nel Purgatorio. Le ricordanze de' casi anche più tristi sono pure di amarezza, raddolcite dalle speranze dell'ultimo giorno. Manfredi non ha una ingiuria per i suoi nemici, chiede perdono, ed ha già perdonato.

Io mi rendei

piangendo a quei che volentier perdona.

Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze più strazianti della sua morte con una calma e una serenità, che diresti indifferenza, se non te ne rivelasse il secreto il sentimento espresso in questi versi:

Qui vi perdei la vista

nel nome di Maria finio, e quivi

caddi, e rimase la mia carne sola.

Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del cuore il suo tempio domestico. Ciascuno vuol essere ricordato a' suoi diletti. Come è caro quel Forese con quel "Nella mia",

la vedovella mia che tanto amai!

E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che si sono dimenticati di lui, e Manfredi vuol essere ricordato a Costanza, e Iacopo a' suoi fanesi, che pregassero per lui: la sola Pia non ha alcun nome nel suo santuario domestico, e non ha che Dante che possa ricordarsi di lei:

ricordati di me, che son la Pia.

Questo mondo così affettuoso è penetrato di malinconia: sentimento nuovo, che avrà tanta parte nella poesia moderna, e generato qui, nel Purgatorio. Questo sentimento ti prende a udir la Pia, così delicata nella solitudine del suo cuore; eppure non era sola, e ricorda la gemma, pegno d'amore. La tenerezza e delicatezza de' sentimenti dispone l'animo alla malinconia: perché malinconia non è se non dolce dolore, dolore raddolcito da immagini care e tenere. Richiede perciò anime raccolte che vivano in fantasia, sieno "pensose", non distratte dal mondo, chiuse nella loro intimità La malinconia è il frutto più delicato di questo mondo intimo. Come ti va al core quell'ora che incomincia i tristi lai la rondinella, presso alla mattina, e quella squilla di lontano,

che pare il giorno pianger che si more,

e quell'ora della sera che i naviganti partono e s'inteneriscono pensando

lo dì c'han detto a' dolci amici: addio!

Qui Dante gitta via l'astronomia, che rende spesso così aride le sue albe e le sue primavere, e rende tutte le dolcezze di una natura malinconica. Tra le scene più intime, più penetrate di malinconia, è il suo incontro con Casella. Cominciano espansioni di affetto. Nel primo impeto corrono ad abbracciarsi. Casella dice:

Così com'io t'amai

nel mortal corpo, così t'amo sciolta.

Dante risponde: - Casella mio! - e lo prega a voler cantare, come faceva in vita, che col canto gli acquietava l'anima, e ora l'anima sua è così affannata. E Casella canta una poesia di Dante, e Dante e Virgilio e le anime fanno cerchio, rapite, dimentiche del purgatorio, sgridate da Catone. Ma se Catone non perdona, perdonano le muse. Quest'oblio del purgatorio, questa musica che ci riconduce alle care memorie della vita, la terra che scende nell'altro mondo e si impossessa delle anime, sì che obliano di essere ombre e vogliono abbracciare gli amici e pendono dalla bocca di Casella, questo è poesia. Ci si sente qua dentro la malinconia dell'esilio, l'uomo che giovine ancora desiderava con la sua Bice e i suoi amici e le loro donne ritrarsi in un'isola e farne il santuario dei suoi affetti e obliarvi il mondo.

E c'è la malinconia propria del purgatorio, quel vedere di là con mutati occhi le grandezze e gli affetti terreni, quel disabbellirsi della vita, quel cadere di tutte le illusioni:

Non è il mondan rumore altro ch'un fiato

di vento, ch'or vien quinci ed or vien quindi,

e muta nome perché muta lato.

Una delle figure più interessanti è Adriano. All'ultimo della grandezza dice:

Vidi che lì non si quetava il core,

ne più salir poteasi in quella vita;

per che di questa in me s'accese amore.

Questo papa disilluso ha lunga e mala parentela, e sono tutti morti per lui, eccetto la buona Alagia:

E questa sola m'è di la rimasa.

Quest'ultimo verso è pregno di malinconia.

Questa calma filosofica, che fa guardare dall'alto del purgatorio la vita e ne scopre il vano e il nulla, restringe il circolo della personalità e della realtà terrena. Gli individui appariscono e spariscono, appena disegnati; hanno la bellezza, ma anche la monotonia e l'immobilità della calma. Sono uomini che discutono e conversano in una sala, più che uomini agitati e appassionati. I grandi individui storici, le grandi creature della fantasia scompariscono.

Più che negli individui la vita si manifesta nei gruppi: la vita qui è meno individuo che genere. La comune anima ha la sua espressione nel canto. Nell'inferno non ci son cori; perché non vi è l'unità dell'amore. L'odio è solitario; l'amore è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i loro effetti nella misurata varietà delle voci e degl'istrumenti. Qui le anime sono esseri musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, assorte in uno stesso spirito di carità:

Una parola era in tutto e un modo,

sì che parea tra esse ogni concordia.

Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e inni, espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera, di letizia, di lodi al Signore. Quando giungono al purgatorio, le odi cantare: "In exitu Israel de Aegypto". Giungono nella valle, ed ecco intonare il Salve Regina. La sera odi l'inno: "Te lucis ante terminum Rerum creator poscimus". Entrando nel purgatorio, risuona il Te Deum. Sono i salmi e gl'inni della Chiesa, cantati secondo le varie occasioni, e di cui il poeta dice le prime parole. Ti par d'essere in chiesa e udir cantare i fedeli. Quei canti latini erano allora nella bocca di tutti, erano cantati da tutti in chiesa; il primo verso bastava a ricordarli. Il poeta ha creduto bastar questo ad accendere ne' petti l'entusiasmo religioso. E forse bastava allora, quando quei versi suscitavano tante rimembranze e immagini della vita religiosa. La poesia qui non è nella rappresentazione, ma in quei lettori e in quei tempi. Un nome, una parola basta in certi tempi a produrre tutto l'effetto: con quei tempi se ne va la loro poesia, e restano cosa morta. Molte parti del poema dantesco, aride liste di nomi e di fatti, soprattutto le allusioni politiche, allora così vive, oggi son morte. E tutta questa lirica del purgatorio è cosa morta. Perché Dante non crea dal suo seno quei sentimenti, ma li trova belli e scritti ne' canti latini, e si contenta di dirne le prime parole. Pure, la situazione delle anime purganti è altamente lirica; la loro personalità non è individuale, ma collettiva, e l'espressione di quella comune anima svegliatasi in loro è l'onda canora de' sentimenti. Qui mancò la vena e la forza al gran poeta, e si rimise a Davide di quello ch'era suo compito. Più che visioni e simboli e dipinti, la vita del purgatorio era questa effusione lirica di dolore, di speranza, di amore, di quell'incendio interiore che rende le anime affettuose, concordi in uno stesso spirito di carità. Ha saputo così ben dipingerle queste anime ardenti, che s'incontrano, si baciano e vanno innanzi, tirate su verso il cielo!

Li veggio d'ogni parte farsi presta

ciascun'ombra, e baciarsi una con una,

senza restar, contente a breve feste.

Così per entro loro schiera bruna

s'ammusa l'una con l'altra formica,

forse a spiar lor via e lor fortuna.

E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i loro sentimenti, non solo il vago e l'indeterminato, ma anche il proprio e il successivo, ed essere il Davide del suo purgatorio, lo mostra il suo "paternostro", rimaso canto solitario.

Le fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata del paradiso nel luogo della speranza. In essi non e alcuna subbiettività: sono forme eteree vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell'estasi, e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine.

Tal che parea beato per iscritto...

Verdi come fogliette pur mo' nate

erano in veste, che da verdi penne

percosse traean dietro e ventilate...

Ben discernea in lor la testa bionda,

ma nelle facce l'occhio si smarria,

come virtù ch'a troppo si confonda...

A noi venìa la creatura bella,

bianco vestita, e nella faccia quale

par tremolando mattutina stella.

Molto per la pittura, poco per la poesia. Manca la parola, manca la personalità. Ci è il corpo dell'angiolo; non ci è l'angiolo. Nelle dolci note, tra quelle forme d'angioli, l'anima s'infutura, "gusta le primizie del piacere eterno". Di che prende qualità la natura del purgatorio, una montagna, scala al paradiso, in principio faticosa a salire:

E quanto uom più va su, e men fa male.

Però quando ella ti parrà soave

tanto che il su andar ti sia leggiero,

com'a seconda in giuso l'andar con nave,

allor sarai al fin d'esto sentiero.

Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa dal sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco. La prima impressione della luce, uscendo dall'inferno, cava a Dante questa bella immagine:

Dolce color d'oriental zaffiro

che s'accoglieva nel sereno aspetto

dell'aer puro infino al primo giro,

agli occhi miei ricomincio diletto.

La natura è l'accordo musicale e la voce di quel di dentro: qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un solo universo lirico. Scena stupenda è nel canto settimo, maravigliosa consonanza tra le ombre sedute, quete, che cantano "Salve Regina", e la vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:

Non avea pur natura ivi dipinto,

ma di soavità di mille odori

vi faceva un incognito indistinto.

"Salve Regina" in sul verde e in su' fiori

quindi seder, cantando, anime vidi.

Le anime piangono e cantano, e il luogo alpestre è lieto di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha termine, quando l'anima si leva con libera volontà a miglior soglia, tolte le "schiume della coscienza", con pura letizia. Così come nell'inferno si scende sino al pozzo ghiacciato della morte, nel purgatorio si sale sino al paradiso terrestre, immagine terrena del paradiso, dove l'anima è monda del peccato o della carne, e rifatta bella e innocente. Tutto è qui che alletti lo sguardo e lusinghi l'immaginazione: riso di cielo, canti di uccelli, vaghezza di fiori, e tremolar di fronde e mormorare di acque, descritto con dolcezza e melodia, ma insieme con tale austera misura, che non dà luogo a mollezza ed ebbrezza di sensi, nè il diletto turba la calma.

Il purgatorio è il centro di questo mistero o commedia dell'anima; è qua che il nodo si scioglie. Dante, più che spettatore è attore. Uscito dall'inferno, appena all'ingresso del purgatorio l'angiolo incide sulla sua fronte sette "P", che sono i sette peccati mortali, che si purgano ne' sette gironi. Da un girone all'altro una "P" scomparisce dalla fronte, finché van via tutte, e puro e rinnovellato giunge al paradiso terrestre. Passa da uno stato nell'altro in sonno, cioè a dire per virtù della grazia, senza sua coscienza. È Lucia, "nemica di ciascun crudele", che lo piglia dormente e sognante, e lo conduce in purgatorio. Così la storia intima dell'anima, i suoi errori, le passioni, i traviamenti, i pentimenti, sono storia esterna e simbolica: il dramma è strozzato nella sua culla. La crisi del dramma, il punto in cui il nodo si scioglie, e il pentimento, l'anima che si riconosce, e caccia via da sè il peccato, e si pente e si vergogna e ne fa confessione. A questo punto il dramma si fa umano, e ciò che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che ha fatto qui; ma una storia intima, personale, drammatica dell'anima, com'è il Faust, non era possibile in tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.

Qui tutt'i personaggi del dramma si trovano a fronte. Di qua Dante, Virgilio, Stazio; di là Beatrice con gli angeli; in mezzo e il rio che li divide, bipartito in due fiumi, Lete, l'obblio, ed Eunoè, la forza. Nell'uno l'anima si spoglia della scoria del passato; nell'altra attinge virtù di salire alle stelle.

L'alto fato di Dio sarebbe rotto,

se Lete si passasse, e tal vivanda

fosse gustata senza alcuno scotto

di pentimento che lagrime spanda.

Di là è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto del pentimento, e le passa all'altra riva, rifatte nell'antico stato d'innocenza. E lo specchio dell'anima rinnovellata è Matilde, che danza e sceglie fiori, in sembianza ancora umana, celeste creatura, con l'ingenua giocondità di fanciulla, con la leggerezza di una silfide, col pudico sguardo di vergine, il viso radiante di luce. Tale era Lia, affacciatasi al poeta in sogno, il presentimento di Matilde, il nunzio del paradiso terrestre.

La scena dove questo mistero dell'anima si scioglie ha le sacre e venerabili apparenze di un mistero liturgico, una di quelle sacre rappresentazioni che si facevano durante le processioni. Vedi una Chiesa animata e ambulante in processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette alberi d'oro, e dietro gente vestita di bianco che canta "Osanna", e le fiammelle lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti, e sotto questo cielo di luce sfila la processione. Ecco a due a due i profeti e i patriarchi dell'antico Testamento, sono ventiquattro seniori coronati di giglio:

Tutti cantavan: - Benedetta tue

nelle figlie di Adamo, e benedette

sieno in eterno le bellezze tue. -

Segue la Chiesa in figura di carro trionfale, a due ruote (i due testamenti), tra quattro animali (i quattro vangeli), tirato da un grifone, simbolo di Cristo; a destra Fede, Speranza e Carità; a sinistra Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, vestite di porpora; dietro due vecchi, san Luca e san Paolo, e dietro a loro, quattro in umile paruta, forse gli scrittori dell'Epistole, e solo e dormente san Giovanni dall'Apocalisse:

E diretro da tutti un veglio solo

venir dormendo con la faccia arguta.

Si ode un tuono. La processione si ferma. Comincia la rappresentazione. Virgilio guarda attonito, non meno che Dante. Il senso di quella processione allegorica gli sfugge. La missione del savio pagano è finita. Hai innanzi la dottrina nuova, la Chiesa di Cristo co' suoi profeti e patriarchi, co' suoi evangelisti e apostoli, co' suoi libri santi.

Fermata la processione, uno canta e gli altri ripetono: "Veni sponsa, de Libano", e sul carro si leva moltitudine di angioli che cantano e gittano fiori.

Tutti dicean: - Benedictus qui venis

e fior gittando di sopra e dintorno

manibus o date lilia plenis. -

Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido velo, cinta d'oliva, sotto verde manto, vestita di colore di fiamma; appare come la Madonna nelle processioni, sotto i fiori che le gittano dalle finestre i fedeli. Dante non la vede, ma la sente: è Beatrice.

Quest'apoteosi di Beatrice, questo primo apparire della sua donna ancora velata fra tanta gloria, scioglie l'immaginazione dalla rigidità de' simboli e de' riti, e le dà le libere ali dell'arte. Il dramma si fa umano; spuntano le immagini e i sentimenti:

Io vidi già nel cominciar del giorno

le parte oriental tutta rosata,

e l'altro ciel di bel sereno adorno

e la faccia del sol nascere ombrata

sì ché per temperanza di vapori

l'occhio la sostenea lunga fiata.

Così dentro una nuvola di fiori,

che dalle mani angeliche saliva

e ricadeva giù dentro e di fuori,

sovra candido vel, cinta di oliva

donna m'apparve sotto il verde manto

vestita di color di fiamma viva.

L'apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio. Qui l'astrattezza del simbolo è superata. Ti senti innanzi ad un'anima d'uomo. Quella donna è la sua Beatrice, l'amore della sua prima giovinezza; e Virgilio e il dolcissimo padre che sparisce, quando più ne aveva bisogno, quando era proprio come un fantolino in paura che si volge alla mamma; e si volge, e non lo vede più, e lo chiama tre volte per nome nella mente sbigottita. Il mistero liturgico si trasforma in un dramma moderno:

E lo spirito mio che già cotanto

tempo era stato ch'alla sua presenza

non era di stupor tremando affranto,

senza dagli occhi aver più conoscenza,

per occulta virtù che da lei mosse,

d'antico amor sentì la gran potenza.

Tosto che nella vista mi percosse

l'alta virtù che già m'avea trafitto

prima ch'io fuor di puerizia fosse,

volsimi alla sinistra, col respitto

col quale il fantolin corre alla mamma,

quando ha paura o quando egli è afflitto,

per dicer a Virgilio: - Men che dramma

di sangue m'è rimaso, che non tremi;

conosco i segni dell'antica fiamma -.

Ma Virgilio ne avea lasciati scemi

di sè; Virgilio dolcissimo padre,

Virgilio, a cui per mia salute dièmi.

Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per introdurre in iscena Beatrice:

Dante, perché Virgilio se ne vada,

non pianger anco, non piangere ancora,

che pianger ti convien per altra spada.

Gli occhi di Dante sono là verso la donna, che lo chiama per nome:

Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.

Come degnasti d'accedere al monte?

Non sapei tu che qui l'uomo è felice?

E gli occhi cadono nella fontana, e non sostenendo la propria vista, cadono sull'erba:

Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;

ma veggendomi in esso, io trassi all'erba:

tanta vergogna mi gravò la fronte.

Qui è la prima volta e sola che un'azione è rappresentata nel suo cammino e nel suo svolgimento, come in un mistero, e Dante vi rivela un ingegno drammatico superiore. I più intimi e rapidi movimenti dell'animo scappan fuori; i due attori, Dante e Beatrice, vi sono perfettamente disegnati; gli angioli fanno coro e intervengono. La scena è rapida, calda, piena di movimenti e di gradazioni fini e profonde. La vergogna di Dante senza lacrime e sospiri giunge a poco a poco sino al pianto dirotto. Dapprima sta li più attonito che compunto, ma quando gli angioli nel loro canto hanno aria di compatirgli, come se dicessero: "Donna, perché sì lo stempre?" scoppia il pianto. Quello che non potè il rimprovero, ottiene il compatimento. Gradazione vera e profonda e rappresentata con rara evidenza d'immagine. Instando Beatrice: - Di' di', se questo è vero -, tra confusione e vergogna, esitando e incalzato gli esce un tale "sì" dalla bocca, che si poteva vedere, ma non udire:

al quale intender fur mestier le viste.

I sentimenti dell'animo scoppiano con tanta ingenuità e naturalezza, che rasentano il grottesco; quando Beatrice dice: "Alza la barba", il nostro dottore con linguaggio della scuola riflette:

e quando per la "barba" il "viso" chiese,

ben conobbi 'l velen dell'argomento.

Il berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul capo di Dante fra le lacrime e i sospiri, e dà a questa magnifica storia del cuore un colorito locale.

Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice. Qui non ci è dialogo: è lei che parla: le risposte di Dante sono le sue emozioni. Pure non ci è monotonia, ne declamazione: tutto esce da una situazione vera e finamente analizzata. "Regalmente proterva", la sua severità è raddolcita poi dal canto degli angioli. Beatrice non parla più a Dante: parla agli angioli, e narra loro la storia di Dante. La situazione diviene meno appassionata, ma più elevata: mai la poesia non s'era alzata a un linguaggio sì nobile; lo spiritualismo cristiano trovava la sua musa:

Quando di carne a spirto era salita

e bellezza e virtù cresciuta m'era,

fu' io a lui men cara e men gradita:

e torse i passi suoi per via non vera,

immagini di ben seguendo false,

che nulla promission rendono intera.

Poi si volta a Dante, e il discorso diviene personale, stringente, implacabile nella sua logica. E una sola idea sotto varie forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante una risposta. - Sei uomo, hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci della terra,

o pargoletta,

o altra vanità per sì breve uso?

E quando Dante potè formare la voce, viene la risposta:

... ... Le presenti cose

col falso lor piacer volser miei passi,

tosto che 'l vostro viso si nascose.

Come si vede, è l'antica lotta tra il senso e la ragione che qui ha il suo termine; è la vita tragica dell'anima fra gli errori e le battaglie del senso, che qui si scioglie in commedia, cioè in lieto fine, con la vittoria dello spirito. L'idea è più che trasparente, è manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico. Ma l'idea e calata nella realtà della vita e produce una vera scena drammatica, con tale fusione di terreno e di celeste, di passione e di ragione, di concreto e di astratto, che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere più tardi il dramma spagnuolo.

Dante, pentito, tuffato nel fiume Lete, e menato a Beatrice dalle virtù, sue ancelle:

Noi sem qui ninfe; e nel ciel semo stelle.

Pria che Beatrice discendesse al mondo,

fummo ordinate a lei per sue ancelle.

Menrenti agli occhi suoi...

E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che possa rendere quello che Dante vede, quello che sente:

O isplendor di viva luce eterna,

chi pallido si fece sotto l'ombra

sì di Parnasso, e bevve in sua cisterna,

che non paresse aver la mente ingombra,

tentando a render te, qual tu paresti,

là, dove armonizzando il ciel ti adombra,

quando nell'aere aperto ti solvesti?

Compiuta la rappresentazione, ricomincia la processione sino all'albero della vita, dove, antitesi a questa Chiesa gloriosa di Cristo, apparisce in visione allegorica la Chiesa terrena, trafitta dall'impero, travagliata dall'eresia, corrotta dal dono di Costantino, smembrata da Maometto, e in ultimo meretrice fra le braccia del re di Francia. Concetto stupendo, questo apparire della vita terrena nell'ultimo del purgatorio, germogliata dall'albero infausto del peccato di Adamo. Il terreno apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo in realtà, ma in ricordanza. Siamo già alla soglia del paradiso.

Così finisce questa processione dantesca, una delle concezioni più grandiose del poema, anzi in sè sola tutto un poema, dove ci vediamo sfilare davanti tutt'i grandi personaggi della Chiesa celeste, immagine anticipata del regno di Dio, un'apoteosi del cristianesimo, entro di cui si rappresenta il più alto mistero liturgico, la Commedia dell'anima.

Questa processione dove far molta impressione in quei tempi delle processioni, de' misteri e delle allegorie, quando gli angeli, le virtù e i vizi, e Cristo e Dio stesso entravano in iscena. Ma è appunto questo carattere liturgico e simbolico, che qui scema in gran parte la bellezza della poesia. Questo difetto nuoce soprattutto nella rappresentazione della Chiesa terrena, dove l'aquila, la volpe, e il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoliscono un concetto così magnifico, una storia così interessante.

Lo stesso contrasto si affaccia a Dante, quando il mantovano Sordello, sentendo Virgilio esser di Mantova, esce dalla sua calma di leone:

O mantovano, io son Sordello.

della tua terra. - E l'un l'altro abbracciava.

E Dante pensa alla sua Firenze, dove

... ... l'un l'altro si rode

di quei che un muro e una fossa serra.

Qui non è impigliato nelle allegorie. Scoppia il contrasto impetuoso, eloquente, e n'esce una poesia tutta cose, dove si riflettono i più diversi movimenti dell'animo, il dolore, lo sdegno, la pietà, l'ironia, una calma tristezza.

Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza. Quando la vita si disabbella a' nostri sguardi, quando le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella santità degli affetti domestici tra la famiglia e gli amici, nelle opere dell'arte e del pensiero, il Purgatorio ci s'illumina di viva luce e diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze, una gran parte di noi. Fu il libro di Lamennais, di Balbo, di Schlosser.

Viene il Paradiso. Altro concetto, altra vita, altre forme.

Il paradiso e il regno dello spirito, venuto a libertà, emancipato dalla carne o dal senso, perciò il soprasensibile, o come dice Dante, il trasumanare, il di la dall'umano. È quel regno della filosofia che Dante volea realizzare in terra, il regno della pace, dove intelletto, amore e atto sono una cosa. Amore conduce lo spirito al supremo intelletto, e il supremo intelletto è insieme supremo atto. La triade è insieme unità. Quando l'uomo è alzato dall'amore fino a Dio, hai la congiunzione dell'umano e del divino, il sommo bene, il paradiso.

Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta, è una forma della vita umana. Ci è nel nostro spirito un di là, ciò che dicesi il sentimento dell'infinito, la cui esistenza si rivela più chiaramente alle nature elevate.

L'arte antica avea materializzato questo di là, umanando il cielo, e la filosofia partendo dalle più diverse direzioni era giunta a questa conclusione pratica, che l'ideale della saggezza, e perciò della felicità, è posto nella eguaglianza dell'animo, ciò che dicevasi "apatia", affrancamento dalle passioni e dalla carne: pagana tranquillità, che vedi nelle figure quiete e serene e semplici dell'arte greca.

Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del limbo:

Sembianza avevan ne' trista ne' lieta...

Parlavan rado, con passi soavi

Virgilio n'è il tipo più puro, le cui impressioni vanno di rado al di là di un sospiro, o di un movimento tosto represso. Questa calma è la fisonomia del purgatorio, il carattere più spiccato di quelle anime, dove l'aspirazione al cielo è senza inquietudine, sicure di salirvi quandochessia. Ma già in quelle anime penetra un elemento nuovo, l'estasi, il rapimento, la contemplazione; ci sta Catone, ma irradiato di luce.

Col cristianesimo s'era restaurato nello spirito questo inquieto di là, e divenne in breve molta parte della vita, anzi la principale occupazione della vita. E si sviluppò un'arte e una letteratura conforme. Chi vede gli ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e di San Giovanni Laterano, o le facce estatiche de' santi consumate dal fervore divino ha innanzi stampato il tipo di questo uomo nuovo. Quel di là, il celeste, il divino, appare su quelle facce, come appare nella Città di Dio di santo Agostino e nella Dieta salutis di san Bonaventura. A questa immagine avea composta la sua Gerusalemme celeste frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.

Questo di là, intravveduto nelle estasi, ne' sogni, nelle visioni nelle allegorie del purgatorio, eccolo qui nella sua sostanza, è il paradiso. Il quale intravveduto nella vita ha una forma, e può essere arte; ma non si concepisce come, veduto ora nella sua purezza, come regno dello spirito, possa avere una rappresentazione. Il paradiso può essere un canto lirico, che contenga. non la descrizione di cosa che è al di sopra della forma, ma la vaga aspirazione dell'anima a "non so che divino", ed anche allora l'obietto del desiderio, pur rimanendo "un incognito indistinto", riceve la sua bellezza da immagini terrene, come nell'Aspirazione e nel Pellegrino di Schiller, e in questi bei versi del Purgatorio, imitati dal Tasso:

Chiamavi il cielo e intorno vi si gira,

mostrandovi le sue bellezze eterne.

Per rendere artistico il paradiso, Dante ha immaginato un paradiso umano, accessibile al senso e all'immaginazione. In paradiso non c'è canto, e non luce e non riso; ma essendo Dante spettatore terreno del paradiso, lo vede sotto forme terrene:

Per questo la Scrittura condescende

a vostra facultade, e mani e piedi

attribuisce a Dio ed altro intende.

Così Dante ha potuto conciliare la teologia e l'arte. Il paradiso teologico è spirito, fuori del senso e dell'immaginazione, e dell'intelletto; Dante gli dà parvenza umana e lo rende sensibile ed intelligibile. Le anime ridono, cantano, ragionano come uomini. Questo rende il paradiso accessibile all'arte.

Siamo all'ultima dissoluzione della forma. Corpulenta e materiale nell'Inferno, pittorica e fantastica nel Purgatorio, qui è lirica e musicale, immediata parvenza dello spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia e cerchio dello spirito, non esso spirito. Il purgatorio, come la terra, riceve la luce dal sole e dalle stelle, e queste l'hanno immediatamente da Dio, sicché le anime purganti, come gli uomini, veggono il sole, e nel sole intravvedono Dio, offertosi già alla fantasia popolare come emanazione di luce; ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce che move da lui senza mezzo:

lume che a lui veder ne condiziona.

Adunque il paradiso e la più spirituale manifestazione di Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce, di tutti gli affetti non altro che amore, di tutt'i sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che contemplazione. Amore, beatitudine, contemplazione prendono anche forma di luce; gli spiriti si scaldano ai raggi d'amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli occhi e fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta nel cospetto eterno:

Luce intellettual piena d'amore,

amor di vero ben pien di letizia,

letizia che trascende ogni dolzore.

Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la luce; l'ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.

Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso, come l'inferno e il purgatorio. È una progressiva manifestazione dello spirito o di Dio in una forma sempre più sottile sino al suo compiuto sparire, manifestazione ascendente di Dio che risponde a' diversi ordini o gradi di virtù. Sali di stella in stella, come di virtù in virtù, sino al cielo empireo, soggiorno di Dio.

Ad esprimere queste gradazioni, unica forma è la luce. Perciò non hai qui, come nell'inferno o nel purgatorio, differenze qualitative, ma unicamente quantitative, un più e un meno. Prima la luce non è così viva che celi la faccia umana; più si sale e più la luce occulta le forme come in un santuario. Come è la luce, così è il riso di Beatrice, un "crescendo" superiore ad ogni determinazione; la fantasia, formando, non può seguire l'intelletto, che distingue. Bene il poeta vi adopera l'estremo del suo ingegno, conscio della grandezza e difficoltà dell'impresa:

L'acqua ch'io prendo giammai non si corse.

Minerva spira e conducemi Apollo,

e nove Muse mi dimostran l'Orse.

Dapprima caldo di questo mondo, sua fattura, allettato dalla novità o dal maraviglioso de' fenomeni che gli si affacciano, le immagini gli escono vivaci, peregrine; poi quasi stanco diviene arido e dà in sottigliezze; ma lo vedi rilevarsi e poggiare più e più a inarrivabile altezza, sereno, estatico: diresti che la difficoltà lo alletti, la novità lo rinfranchi, l'infinito lo esalti.

Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo, immobile e che tutto move, centro dell'universo. Ivi sono gli spiriti, ma secondo i gradi de' loro meriti e della loro beatitudine appariscono ne' nove cieli che girano intorno alla terra, la luna, Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove, Saturno, le stelle fisse e il primo mobile. Ne' primi sette cieli, che sono i sette pianeti, ti sta avanti tutta la vita terrena. La luna è una specie di avanti-paradiso. I negligenti aprono l'inferno e il purgatorio, e aprono anche il paradiso. E i negligenti del paradiso sono i manchevoli non per volontà propria, ma per violenza altrui. Il loro merito non è pieno, perché mancò loro quella forza di volontà che tenne Lorenzo sulla grata e fe' Muzio severo alla sua mano. Perciò in loro rimane ancora un vestigio della terra: la faccia umana. In Mercurio, Venere, il sole, Marte, Giove hai le glorie della vita attiva, i legislatori, gli amanti, i dottori, i martiri, i giusti. In Saturno hai la corona e la perfezione della vita, i contemplanti. Percorsi i diversi gradi di virtù, comincia il tripudio, o come dice il poeta, il trionfo della beatitudine. Ed hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo, nel primo mobile il trionfo degli angioli, e nell'empireo la visione di Dio, la congiunzione dell'umano e del divino, dove s'acqueta il desiderio. Questa storia del paradiso secondo i diversi gradi di beatitudine ha la sua forma ne' diversi gradi di luce.

La luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite di tutte le forme terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione dell'occhio mortale. Essa è la stessa beatitudine, la letizia delle anime, che prende quell'aspetto agli occhi di Dante:

La mia letizia mi ti tien celato

che mi raggia d'intorno e mi nasconde

quasi animal di sua seta fasciato.

Queste parvenze dell'interna letizia si atteggiano, si determinano, si configurano ne' più diversi modi, e non sono altro che i sentimenti o i pensieri delle anime che paion fuori in quelle forme. E n'esce la natura del paradiso, luce diversamente atteggiata e configurata, che ha aspetto or di aquila, or di croci, or di cerchio, or di costellazione, ora di scala, con viste nuove e maravigliose. Queste combinazioni di luce non sono altro che gruppi d'anime, che esprimono i loro pensieri co' loro moti e atteggiamenti. A rendere intelligibili le parvenze di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli, più delicati, e ne fa lo specchio della natura celeste. Così rientra la terra in paradiso, non come sostanziale, ma come immagine, parvenza delle parvenze celesti. È la terra che rende amabile questo paradiso di Dante; è il sentimento della natura che diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose e simboliche. La terra ha pure la sua parte di paradiso, ed è in quei fenomeni che inebbriano, innalzano l'animo e lo dispongono alla tenerezza e all'amore: trovi qui tutto che in terra è di più etereo, di più sfumato, di più soave. E come l'impressione estetica nasce appunto da questo profondo sentimento della natura terrestre, avviene che il lettore ricorda il paragone, senza quasi più sapere a che cosa si riferisca. Questi paragoni di Dante sono le vere gemme del Paradiso:

Come a raggio di sol che puro mèi

per fratta nube, già prato di fiori

vider coverti d'ombra gli occhi miei;

vid'io così più turbe di splendori

fulgorati di su da' raggi ardenti,

senza veder principio di fulgori.

Sì come 'l Sol che si cela egli stessi

per troppa luce, quando il caldo ha rose

le temperanze de' vapori spessi,

per più letizia sì mi si nascose

dentro al suo raggio la figura santa,

e così chiusa chiusa mi rispose...

Come l'augello, intra l'amate fronde,

posato al nido de' suoi dolci nati,

la notte che le cose ci nasconde,

che per veder gli aspetti desiati

e per trovar lo cibo onde gli pasca,

in che i gravi labori gli sono grati,

previene 'l tempo in su l'aperta frasca,

e con ardente affetto il sole aspetta,

fiso guardando pur se l'alba nasca...

... come orologio che ne chiami

nell'ora che la sposa di Dio surge

a mattinar lo sposo perché l'ami;

che l'una parte e l'altra tira ed urge,

"tin tin" sonando con si dolce nota,

che il ben disposto spirto d'amor turge...

... e cantando vanio

come per acqua cupa cosa grave.

Qual lodoletta che in aere si spazia,

prima cantando e poi tace contenta

dell'ultima dolcezza che la sazia...

Pareva a me che nube ne coprisse

lucida, spessa, solida e pulita,

quasi adamante che lo sol ferisse.

Per entro sè l'eterna margherita

ne ricevette, com'acqua recepe

raggio di luce, rimanendo unita.

Siccome schiera d'api che s'infiora

una fiata, ed una si ritorna

là dove suo lavoro s'insapora...

E vidi lume in forma di riviera,

fulvido di fulgore, intra duo rive,

dipinte di mirabil primavera.

Di tal fiumana uscian faville vive,

e d'ogni parte si mettean ne' fiori

quasi rubin che oro circoscrive.

Poi come inebriate dagli odori

riprofondavan sè nel miro gurge;

e s'una entrava, un'altra usciane fuori.

Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità e di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò che in terra è più ridente e smagliante. Siamo nell'empireo. La virtù visiva è stanca, ma si raccende alle parole di Beatrice, sì che gli appare la riviera di luce, e fortificata la vista in quella riviera, in quei fiori inebbrianti, in quell'oro, in quei rubini, in quelle vive faville, Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro tripudio. Ma in verità gli scanni de' beati sono meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil primavera.

Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un press'a poco, un quasi, un come, "fioca e corta" al concetto. Questa impotenza della forma produce un sublime negativo, che Dante esprime con l'energia intellettuale di chi ha vivo il sentimento dell'infinito:

... appressando sè al suo desire

nostro intelletto si profonda tanto

che la memoria retro non può ire.

... ogni minor natura

è corto recettacolo a quel bene,

che non ha fine e sè con sè misura.

... nella giustizia sempiterna

la vista che riceve il vostro mondo,

com'occhio per lo mare, entro s'interna;

ché, benché dalla proda veggia il fondo,

in pelago nol vede; e nondimeno

egli è, ma 'l cela lui l'esser profondo.

La letizia che move le anime e "trascende ogni dolzore", non è se non beatitudine. E rende beate le anime l'entusiasmo dell'amore e la chiarezza intellettiva, o come dice Dante, "luce intellettual piena d'amore". Esse hanno allegro il cuore e allegra la mente. Nel cuore è perenne desiderio e perenne appagamento. Nella mente la verità sta come "dipinta".

La luce è forma inadeguata della beatitudine. Ti dà la parvenza, ma non il sentimento e non il pensiero. Spuntano perciò due altre forme, il canto e la visione intellettuale.

Quello che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è amore, ardore di desiderio placato sempre non saziato mai, infinito come lo spirito. Stato lirico e musicale, che ha la sua espressione nella melodia e nel canto. La medesimezza del sentimento spinto sino all'entusiasmo genera la comunione delle anime; la persona non è l'individuo, ma il gruppo, come è delle moltitudini nei grandi giorni della vita pubblica. I gruppi qui non sono cori, che accompagnino e compiano l'azione individuale, ma sono la stessa individualità diffusa in tutte le anime, o se vogliamo chiamarli cori, sono il coro di personaggi invisibili e muti, di Cristo, di Maria e d'Iddio. Ecco il coro di Maria:

Per entro 'l cielo scese una facella,

formata in cerchio a guisa di corona,

e cinsela e girossi intorno ad ella.

Qualunque melodia più dolce suona

quaggiù e più a sè l'anima tira,

parrebbe nube che squarciata tuona,

comparata al suonar di quella lira,

onde si coronava il bel zaffiro,

del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.

- Io sono amore angelico che giro

l'alta letizia che spira dal ventre

che fu albergo del nostro desiro;

e girerommi, Donna del ciel, mentre

che seguirai tuo Figlio e farai dia

più la spera superna, perché lì entre -.

Così la circulata melodia

si sigillava, e tutti gli altri lumi

facèn sonar lo nome di Maria...

E come fantolin che inver' la mamma

tende le braccia, poi che 'l latte prese,

per l'animo che infin di fuor s'infiamma;

ciascun di quei candori in su si stese

con la sua cima sì che l'alto affetto

ch'egli aveano a Maria, mi fu palese.

Indi rimaser lì nel mio cospetto,

"Regina coeli" cantando sì dolce

che mai da me non si partì il diletto.

Quella facella è l'angiolo Gabriele, e il coro è angelico. Angioli e beati sono penetrati dello stesso spirito, hanno vita comune, se non che negli angioli la virtù è innocenza e la letizia è irriflessa: plenitudine volante tra' beati e Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e allegro della prima età, tripudianti e folleggianti con una espansione che il poeta chiama "arte" e "gioco":

Qual è quell'angel che con tanto gioco

guarda negli occhi la nostra Regina,

innamorato sì che par di fuoco?

L'amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta "sodalizio". I loro moti sono danze, le loro voci sono canti; ma, in quell'accordo di voci, in quel turbine di movimenti la personalità scompare: è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si perdono in una sola melode. Non ci è differenza di aspetto, ma per dir così una faccia sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico del Paradiso, ma è la sua parte fiacca, perché il poeta, contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici, non ha avuta tanta libertà e attività di spirito da creare la lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti e gli affetti del celeste sodalizio. E dove potea giungere, lo mostra la preghiera di san Bernardo, che è un vero inno alla Vergine, e l'inno a san Francesco d'Assisi e l'inno a san Domenico, nella loro semplicità anche un po' rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti inni moderni.

I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e non poesia: è tutto una sola onda di luce, di melodia e di voce, che ti porta seco:

- Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo -

cominciò - gloria - tutto il paradiso,

tal che m'inebbriava il dolce canto.

Ciò ch'io vedeva, mi sembrava un riso

dell'universo, peroché mia ebbrezza

entrava per l'udire e per lo viso.

Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza!

Oh vita intera d'amore e di pace!

Oh senza brama sicura ricchezza!

È l'armonia universale, l'inno della creazione. La luce, vincendo la corporale impenetrabilità e frammischiando i suoi raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle anime, l'individualità sparita nel mare dell'essere. Il poeta, signore anzi tiranno della lingua, forma ardite parole a significare questa medesimezza amorosa degli esseri nell'essere: "inciela", "imparadisa", "india", "intuassi", "immei", "inlei", "s'infutura", "s'illuia", delle quali voci alcune dopo lungo obblio rivivono. La redenzione dell'anima è la sua progressiva emancipazione dall'egoismo della coscienza; la sua individualità non le basta; si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira alla idealità nella vita universale. Questo è il carattere della vita in paradiso. Non solo sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche la personalità. Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.

Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il paradiso a una corda sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra e con la terra altre forme ed altre passioni. La terra penetra come contrapposto a questa vita d'amore e di pace. È vita d'odio e di vana scienza, e provoca le collere e i sarcasmi de' celesti.

Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente poetici. Accolto nel sole gloriosamente allato a Beatrice, si affaccia al poeta tutta la vanità delle cure terrestri:

O insensata cura de' mortali

quanto son difettivi sillogismi

quei che ti fanno in basso batter l'ali!

Chi dietro a iura, e chi ad aforismi

sen giva, e chi seguendo sacerdozio,

e chi regnar per forza o per sofismi,

e chi in rubare, e chi in civil negozio;

chi nel diletto della carne involto

s'affaticava e chi si dava all'ozio.

Un altro momento di alta poesia è quando il poeta dall'alto delle stelle fisse guarda alla terra:

... e vidi questo globo

tal ch'io sorrisi del suo vil sembiante.

La terra "che ci fa tanto feroci", veduta dal cielo, gli pare un'aiuola. Il concetto, abbellito e allargato dal Tasso, ha qui una severità di esecuzione quasi ieratica. Il poeta si sente già cittadino del cielo, e guarda così di passata e con appena un sorriso a tanta viltà di sembiante volgendone immediatamente l'occhio e mirando in Beatrice:

L'aiuola che ci fa tanto feroci,

volgendomi io con gli eterni gemelli,

tutta m'apparve da' colli alle foci:

poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli.

Pure è quest'aiuola che desta nel seno de' beati varietà di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove corde. Accanto all'inno spunta la satira in tutte le sue gradazioni, il frizzo, la caricatura, l'ironia, il sarcasmo. Qual frizzo, che l'allusione di Carlo Martello, così pungente nella sua generalità:

e fanno re di tal, che è da sermone!

Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno dotta nel maneggio della caricatura e dell'ironia, frustando i predicatori plebei di quel tempo:

Or si va con motti e con iscede

a predicare, e pur che ben si rida,

gonfia 'l cappuccio e più non si richiede.

Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei casi e della gloria dell'antica Roma con fiere minacce ai guelfi, nemici dell'aquila imperiale. Papa e monaci sono i più assaliti. San Tommaso, dette le lodi di san Francesco, riprende i francescani, e san Benedetto i benedettini, e san Pietro il papa. Tutt'i re di quel tempo mandano sangue sotto il flagello di Dante. Non si può attendere da' santi alcuna indulgenza alle umane fralezze. La satira è acerba; la sua musa è l'indignazione, e la sua forma ordinaria è l'invettiva. Le forme comiche sono uccise in sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo. Il sarcasmo non è qui nè un pensiero, nè un tratto di spirito, ma pittura viva del vizio, con parole anche grossolane, come "cloaca", che mettano in vista il laido e il disgustoso. Il vizio è colto non in una forma generale e declamatoria, ma là, in quegli uomini, in quel tempo, sotto quelli aspetti, con pienezza di particolari ed esattezza di colorito. Capilavori di questo genere sono la pittura de' benedettini e l'invettiva di san Pietro.

Questo contrapposto tra il cielo e la terra non è altro se non l'antitesi che è in terra tra i buoni e i cattivi, e per scendere al particolare, tra l'età dell'oro del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è il presente condannato dal passato, è il passato messo in risalto dal suo contrasto con la corruzione presente. Ci erano i benedettini, ma ci era stato san Benedetto; ci era Bonifazio e Clemente, ma ci era stato san Pietro e Lino e Cleto e Sisto e Pio e Calisto e Urbano. Gli uomini di quell'aurea età più illustri per santità e per scienza sono qui raccolti, come in un pantheon; è il mondo eroico cristiano, succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel Limbo, e di cui Giustiniano fa il panegirico in paradiso.

Questa età dell'oro collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi ha ispirato a Dante una delle scene più interessanti, ed è la pittura dell'antica e della nuova Firenze, fatta dal Cacciaguida, uno de' suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l'ideale dell'età dell'oro e della domestica felicità con tanta semplicità di costumi, con tanta modestia di vita, e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni epiche: Dante si fa egli medesimo il suo piedistallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta. L'esilio non è rappresentato ne' patimenti materiali: Dio riserba dolori più acuti ai magnanimi, lasciare ogni cosa diletta più caramente e domandare il pane all'insolente pietà degli estranei: questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne' versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande. Ma è un dolore virile: tosto rileva la fronte, e dall'alto del suo ingegno e della sua missione poetica vede a' suoi piedi tutt'i potenti della terra.

La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale. La luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce e detta "intellettuale". Beatrice spiega così il suo riso a Dante:

S'io ti fiameggio nel caldo d'amore

di là dal modo che in terra si vede,

sì che degli occhi tuoi vinco il valore,

non ti maravigliar; ché ciò procede

da perfetto veder, che, come apprende,

così nel bene appreso move il piede.

La beatitudine e la contemplazione, e la contemplazione è appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le anime non investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono e descrivono la verità, non come idea, ma come natura vivente. In terra ci è l'apparenza del vero, e perciò diversità di sistemi filosofici, come spiega Beatrice:

Voi non andate giù per un sentiero

filosofando: tanto vi trasporta

l'amor dell'apparenza e 'l suo pensiero.

In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto eterno; in Dio è legato con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna; vedere Dio è vedere la verità. E non è visione solo di cose, ma di pensieri e di desidèri. I beati vedono il pensiero di Dante senza ch'egli lo esprima.

La scienza com'era concepita a' tempi di Dante, sposata alla teologia, avea una forma concreta e individuale, materia contemplabile e altamente poetica. Un Dio personale, che, immobile motore, produce amando l'idea esemplare dell'universo, pura intelligenza e pura luce, che penetra e risplende in una parte più e meno in un'altra sino alle ultime contingenze; gli astri, dove si affacciano i beati, influenti sulle umane sorti e governati da intelligenze da cui spira il moto e le virtù de' loro giri; il cielo empireo, centro di tutt'i cerchi cosmici e soggiorno della pura luce; l'universo, splendore della divinità, dove appare squadernato ciò che in Dio è un volume; l'ordine e l'accordo di tutto il creato dalle infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli angioli; la caduta dell'uomo per il primo peccato e il suo riscatto per l'incarnazione e la passione del Verbo; la verità rivelata, oscura all'intelletto, visibile al cuore, avvalorata dalla fede, confortata dalla speranza, infiammata dalla carità: in questa scienza della creazione il pensiero è talmente concretato e incorporato, che il poeta può contemplarlo come cosa vivente, come natura. Perciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che una descrizione, come di cosa che si vede e non si dimostra. Il perfetto vedere de' beati è privilegio di Dante; nessuno gli sta del pari nella forza e chiarezza della visione. Spirito dommatico, credente e poetico, predica dal paradiso la verità assoluta, e non la pensa, la scolpisce. Diresti che pensi con l'immaginazione, aguzzata dalla grandezza e verità dello spettacolo. Nascono ardite metafore e maravigliose comparazioni. L'accordo della prescienza col libero arbitrio è una delle concezioni più difficili e astruse; ma qui non è una concezione, è una visione, uno spettacolo: così potente è questa immaginazione dantesca:

La contingenza che fuor del quaderno

della vostra materia non si stende,

tutta è dipinta nel cospetto eterno.

Necessità però quindi non prende,

se non come dal viso in che si specchia

nave che per corrente giù discende.

Da indi, sì come viene ad orecchia

dolce armonia da organo, mi viene

a vista il tempo che ti si apparecchia.

Il poeta procede per deduzione, guardando le cose dall'alto del paradiso, da cui dechina via via fino alle ultime conseguenze: forma contemplativa e dommatica, anzi che discorsiva e dimostrativa, e propria della poesia, presentando all'immaginazione vasti orizzonti in una sola comprensione:

Guardando nel suo Figlio con l'Amore

che l'uno e l'altro eternalmente spira

lo primo e ineffabile valore

quanto per mente e per occhio si gira

con tant'ordine fe' ch'esser non puote

senza gustar di lui chi ciò rimira.

Questa forma poetica della scienza, questa visione intellettuale, abbozzata nel Tesoretto, è condotta qui a molta perfezione. È un certo modo di situare l'oggetto e metterlo in vista, sì che l'occhio dell'immaginazione lo comprenda tutto. Se ci è cosa che ripugna a questa forma, è lo scolasticismo con la barbarie delle sue formole e le sue astrazioni; ma l'immaginazione vi fa penetrare l'aria e la luce: miracolo prodotto dalle due grandi potenze della mente dantesca, la virtù sintetica e la virtù formativa. Veggasi la stupenda descrizione che fa Beatrice del moto degli astri, di poco inferiore alla storia del processo creativo, il capolavoro di questo genere. Qui la scienza della creazione è abbracciata in un solo girar d'occhio, con sì stretta e rapida concatenazione che tutto il creato ti sta innanzi come una sola idea semplice. Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi, come l'unità della luce nella sua diversità, e l'imperfezione della natura, che non ti dà mai realizzato l'ideale. I concetti qui non sono astrazioni, ma forze vive, gli attori della creazione, la luce, il cielo, la natura, e non hai un ragionamento, hai una storia animata, con una chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone poetiche:

Ciò che non muore e ciò che può morire

non è se non splendor di quell'idea,

che partorisce amando il nostro Sire.

Chè quella viva luce che si mea

dal suo Lucente, che non si disuna

da lui, nè dall'amor che in lor s'intrea;

per sua bontate il suo raggiare aduna

quasi specchiato in nuove sussistenze,

eternalmente rimanendosi una.

Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza e di energia in dir cosa difficilissima. Nè minor potenza d'intuizione trovi nella fine, quando, paragonando l'ideale alla cera del suggello, aggiunge:

ma la natura la dà sempre scema,

similemente operando all'artista,

che ha l'abito dell'arte e man che trema.

Ed anche la mano di Dante trema, che fra tante bellezze ci è non poca scoria. Non di rado vedi non il poeta, ma il dottore che esce dall'università di Parigi, pieno il capo di tesi e di sillogismi. Molte quistioni sono troppo speciali, altre sono infarcite di barbarie scolastica: definizioni, distinzioni, citazioni, argomentazioni. E questo è non per difetto di virtù poetica, ma per falso giudizio. A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne vanta, e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca. - Tornate indietro - egli dice - che il mio libro e per soli quei pochi che possono gustare il pan degli angioli; - e sono i filosofi e i dottori suoi pari. Perciò il Paradiso e poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e discente.

La visione intellettuale è la beatitudine. L'esposizione della scienza riesce in cantici e inni, le ultime parole del veggente si confondono con gli osanna del cielo:

Finito questo, l'alta corte santa

risuona per le spere un Dio lodiamo,

nella melode che lassù si canta.

Siccome io tacqui, un dolcissimo canto

risono per lo cielo, e la mia donna

dicea con gli altri: "Santo, santo, santo !"

Così è sciolto questo mistero dell'anima. Adombrato ne' simboli e allegorie del Purgatorio, qui il mistero è svelato, è la Divina Commedia dell'anima, il suo indiarsi nell'eterna letizia. La forza che tira Dante a Dio, si che sale come rivo,

se di alto monte scende giuso ad imo,

è l'amore, è Beatrice, che all'alto volo gli veste le piume Beatrice è in sè il compendio del paradiso, lo specchio dove quello si riflette ne' suoi mutamenti. Puoi dipingerla quando prega Virgilio o quando "regalmente proterva" rimprovera l'amante; ma qui è spiritualizzata tanto, che è indarno opera di pennello. La stessa parola non è possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile, se non ne' suoi effetti su Dante e su' celesti. Ecco uno de' più bei luoghi:

Quivi la donna mia vid'io sì lieta,

come nel lume di quel ciel si mise,

che più lucente se ne fe' il pianeta;

e se la stella si cambiò e rise,

qual mi fec'io, che pur di mia natura

trasmutabile son per tutte guise!

Come in peschiera che è tranquilla e pura

traggono i pesci a ciò che vien di fuori,

per modo che lo stimin lor pastura;

sì vid'io ben più di mille splendori

trarsi ver' noi, ed in ciascun s'udia:

Ecco chi crescerà li nostri amori. -

Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l'anima. L'amore è purificato: nulla resta più di sensuale. Dante che nel purgatorio sentì il tremore dell'antica fiamma, qui ode Beatrice con un sentimento assai vicino alla riverenza. Quando ella si allontana, ei non manda un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue parole sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome, nel piccolo cenno che gli fa Beatrice, l'amore dell'uomo come ombra si dilegua nell'amore di Dio, ella lo ama in Dio:

Così orai, e quella si lontana,

come parea, sorrise e riguardommi:

poi si tornò alla eterna fontana.

Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre a vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo "scotto" del pentimento, così non può ne' "gemelli" o stelle fisse contemplare il trionfo di Cristo che non dichiari la sua fede. Allora san Pietro lo incorona poeta, e poeta vuol dire banditore della verità. San Pietro gli dice:

e non asconder quel ch'io non ascondo.

Così la Commedia ha la sua consacrazione e la sua missione. È la verità bandita dal cielo, della quale Dante si fa l'apostolo e il profeta: è il "poema sacro". Con quella stessa coscienza della sua grandezza che si fe' "sesto fra cotanto senno", qui si pone accanto a san Pietro e se ne fa l'interprete, congiungendo in sè le due corone, il savio e il santo, l'antica e la nuova civiltà, il filosofo e il teologo. Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato, Dante si sente oramai vicino a Dio. Avea già contemplata la divinità nella sua umanità, il Dio-uomo. Il trionfo di Cristo, la festa dell'Incarnazione, sembra reminiscenza di funzioni ecclesiastiche, co' suoi principali attori, Cristo, la Vergine, Gabriello. Cristo e la Vergine sono come nel santuario, invisibili; la festa è tutta fuori di loro e intorno a loro. Succede il trionfo degli angioli, e poi nell'empireo il trionfo di Dio.

L'empireo è la città di Dio, il convento de' beati, il proprio e vero paradiso. Beatrice raggia sì, che il poeta si concede vinto più che tragedo o comico superato dal suo tema, e desiste dal seguir

più dietro a sua bellezza poetando,

come all'ultimo suo ciascun artista.

Ivi è la luce intellettuale, che fa visibile

lo Creatore a quella creatura

che solo in lui vedere ha la sua pace.

La luce ha figura circolare, come il giallo di una rosa, le cui bianche foglie si distendono per l'infinito spazio, e sono gli scanni de' beati. San Bernardo spiega e descrive il maraviglioso giardino. Il punto che più splende è là dove sono

gli occhi da Dio diletti e venerati,

dove è la Vergine e gli angioli. Quel punto è la pacifica orifiamma del paradiso, la bandiera della pace. Il giardino, la rosa, l'orifiamma sono immagini graziose, ma inadeguate. Queste metafore non valgono la stupenda terzina, dove san Bernardo è rappresentato in forma umana e intelligibile:

Diffuso era per gli occhi e per le gene

di benigna letizia, in atto pio,

quale a tenero padre si conviene.

Il paradiso, appunto perché paradiso, non puoi determinarlo troppo e descriverlo, senza impiccolirlo. La sua forma adeguata è il sentimento, l'eterno tripudio: ciò che è ben colto in quella plenitudine volante di angeli, che diffondono un po' di vita tra quella calma. Il vero significato lirico del paradiso è nell'inno di Dante a Beatrice e nell'inno di san Bernardo alla Vergine, ne' quali è il paradiso guardato dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo. I beati stessi diventano interessanti, quando tra quella luce vedi spuntare

visi a carità suadi,

ed atti ornati di tutte onestadi

quando "chiudon le mani" implorando la Vergine.

Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui l'universo, e poi la Trinità, e poi l'Incarnazione, congiunzione dell'umano e del divino, in cui si acqueta il desiderio, il "disiro" e il "velle",

sì come ruota ch'egualmente e mossa.

Dante vede, ma è visione, di cui hai le parole e non la forma; ci è l'intelletto, non ci è più l'immaginazione, divenuta un semplice lume, un barlume. La forma sparisce; la visione cessa quasi tutta; sopravvive il sentimento:

... quasi tutta cessa

mia visione, ed ancor mi distilla

nel cor lo dolce che nacque da essa.

Così la neve al sol si disigilla;

così al vento nelle foglie lievi

si perdea la sentenzia di sibilla.

L'immaginazione morendo manda in questi bei versi l'ultimo raggio. All'"alta fantasia" manca la possa; e insieme con la fantasia muore la poesia.

Così finisce la storia dell'anima. Di forma in forma, di apparenza in apparenza, ritrova e riconosce se stessa in Dio, pura intelligenza, puro amore e puro atto. Ed è in questa concordia che l'anima acqueta il suo desiderio, trova la pace. Nell'Inferno signoreggia la materia anarchica: le sue forme ricevono d'ogni sorte differenze, spiccate, distinte, corpulente e personali. Nel Purgatorio la materia non è più la sostanza, ma un momento: lo spirito acquista coscienza di sua forza, e contrastando e soffrendo conquista la sua libertà: la realtà vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui si sprigiona, aspirazione all'avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi e rappresentazioni dell'immaginativa anzi che obbietti reali: pitture, sogni, visioni estatiche, simboli e canti. Nel Paradiso lo spirito già libero di grado in grado s'india; le differenze qualitative si risolvono, e tutte le forme svaporano nella semplicità della luce, nella incolorata melodia musicale, nel puro pensiero. Quel regno della pace che tutti cercavano, quel regno di Dio, quel regno della filosofia, quel "di là", tormento e amore di tanti spiriti, è qui realizzato. Il concetto della nuova civiltà, di cui avevi qua e là oscuri e sparsi vestigi, è qui compreso in una immensa unità, che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile, tutta la coltura e tutta la storia. E chi costruisce così vasta mole, ci mette la serietà dell'artista, del poeta del filosofo e del cristiano. Consapevole della sua elevatezza morale e della sua potenza intellettuale, gli stanno innanzi, acuti stimoli all'opera, la patria, la posterità, l'adempimento di quella sacra missione che Dio affida all'ingegno, acuti stimoli, ne' quali sono purificati altri motivi meno nobili, l'amor della parte, la vendetta, le passioni dell'esule: ci è là dentro nella sua sincerità tutto l'uomo, ci è quel d'Adamo e ci è quel di Dio. A poco a poco quel mondo della fantasia diviene parte del suo essere, il suo compagno fino agli ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro della memoria, l'eco de' suoi dolori, delle sue speranze e delle sue maledizioni. Nato a immagine del mondo che gli era intorno, simbolico, mistico e scolastico, quel mondo si trasforma e si colora e s'impolpa della sua sostanza, e diviene il suo figlio, il suo ritratto. La sua mente sdegna la superficie, guarda nell'intimo midollo, e la sua fantasia ripugna all'astratto, a tutto dà forma. Onde nasce quella intuizione chiara e profonda che è il carattere del suo genio. E non solo l'oggetto gli si presenta con la sua forma, ma con le sue impressioni e i suoi sentimenti. E n'esce una forma, che è insieme immagine e sentimento, immagine calda e viva, sotto alla quale vedi il colore del sangue, il movere della passione. E con l'immagine tutto è detto, e non vi s'indugia e non la sviluppa, e corre lievemente di cosa in cosa, e sdegna gli accessorii. A conseguire l'effetto spesso gli basta una sola parola comprensiva, che ti offre un gruppo d'immagini e di sentimenti, e spesso, mentre la parola dipinge, non fosse altro, con la sua giacitura, l'armonia del verso ne esprime il sentimento. Tutto è succo, tutto è cose, cose intere nella loro vivente unità, non decomposte dalla riflessione e dall'analisi. Per dirla con Dante, il suo mondo è un volume non squadernato. È un mondo pensoso, ritirato in sè, poco comunicativo, come fronte annuvolata da pensiero in travaglio. In quelle profondità scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive involto ancora e nodoso e pregno di misteri quel mondo, che sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna.

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