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sabato 7 agosto 2010

GIOVANNI BOCCACCIO = * * *D E C A M E R O N* * *- Integrale PDF


* * *G I O V A N N I B O C C A C C I O - D E C A M E R O N* * *

Giovanni Boccaccio nacque nel 1313 (giugno o luglio) in Toscana, forse a Certaldo, o a Firenze (oggi non si ritiene più attendibile la notizia di una sua nascita a Parigi).

Era figlio "naturale" - nato cioè al di fuori del matrimonio - di un mercante: Boccaccio di Chellino, e di una donna di cui non si sa il nome, ma venne riconosciuto e legittimato dal padre, e visse in famiglia con pari diritti rispetto ai fratelli. Dopo i primi studi a Firenze, nel 1327 venne mandato dal padre a Napoli prima a far pratica mercantile, poi, vista la sua svogliata applicazione a questa attività, a studiare diritto canonico.

In quegli anni Giovanni studiò i classici latini, e la letteratura cortese francese e italiana, e scrisse le sue prime opere: Filocolo (1336-38), Filostrato (1335), Teseida (1339-41), Caccia di Diana (1334/38 ) e le Rime (la cui composizione rimanda ad anni diversi). Ebbe anche presumibilmente relazioni amorose, che più tardi esprime, secondo un costume stilnovistico, nella figura di Fiammetta, identificata un tempo con una Maria figlia naturale (anche lei!) di re Roberto d'Angiò e maritata nella casa dei conti d'Aquino: la consistenza storica di questa donna è però oggi largamente messa in dubbio dagli studiosi.

Nel 1341 dovette tornare a Firenze dal padre il quale aveva difficoltà economiche a causa del fallimento della banca di Bardi. Comporrà nuove opere poetiche e narrative: Ninfale d'Ameto o Commedia delle Ninfe fiorentine (1341-42), Elegia di madonna Fiammetta (1343-44), Ninfale fiesolano (1344-46). Boccaccio frequenta le corti della Romagna (Ravenna, Forlì) in cerca di un impiego. Nel 1348 è di nuovo a Firenze, dove assiste alla peste e dopo la morte del padre (1350?) vi rimase per amministrare lo scarso patrimonio. Cominciò a partecipare in vario modo alla vita pubblica e culturale della sua città, e gli furono affidati uffici e ambascerie. Nel frattempo andava componendo quella che noi consideriamo la sua opera maggiore, il Decameron, terminato nel 1351.

Negli ultimi anni si stringe il rapporto di amicizia con Francesco Petrarca, il "glorioso maestro" che lo aveva persuaso a dirigere la mente verso le cose eterne lasciando da parte il diletto di quelle temporali. Il Petrarca lo aiutò a superare una crisi religiosa, indirizzando l'attività del Boccaccio verso la cultura letteraria di tipo "umanistico": le opere tarde del Boccaccio saranno in latino, e fra queste va citata la Genealogia deorum gentilium, un grande trattato di mitologia greco-romana, che per oltre due secoli rimase il libro più consultato su questo argomento.

Negli stessi anni si dedica allo studio dell'opera di Dante, per cui ebbe un vero e proprio culto: di questa attività resta il Trattatello in laude di Dante, e le lezioni con cui commentava pubblicamente la "Divina" Commedia (è stato il Boccaccio ad usare e ad imporre nell'uso questo aggettivo). Morì il 21 dicembre 1375.

D E C A M E R O N (Introduzione):

La raccolta di novelle è stata quasi certamente scritta fra il 1349 e il 1353, all'indomani cioè della terribile pestilenza che dal 1348 devastò l'Europa. Come dice il titolo grecizzante l'azione si svolge e si chiude nel giro di dieci giorni. Dopo un "proemio" indirizzato alle "vaghe donne" che per prova conoscano l'amore, la lunga introduzione alla prima giornata dà un quadro terrificante dell'atmosfera di orrore e di morte che circonda Firenze in preda alla peste. Boccaccio immagina che sette fanciulle e tre giovani uomini si rifugino in una villa dei vicini colli per sfuggire al contagio e per trascorrere un po' di tempo allegramente fra amabili conversari, banchetti e danze. Ogni giorno, tranne il venerdì e il sabato dedicati a pratiche religiose, i giovani si radunano su un prato, per raccontare novelle, una per ciascuno; queste si svolgono intorno a un tema prestabilito, proposto ogni volta dal re o dalla regina eletti quotidianamente dalla compagnia. Dopo ciascun gruppo di racconti trova posto una "conclusione" suggellata da una ballata.

Nel 1976 l’Accademia della Crusca ha pubblicato un’edizione critica del Decameron, che da quel momento ne è divenuta l’edizione canonica. Il curatore Vittore Branca (che in precedenza aveva posto mano ad altre edizioni di stampo tradizionale) l’ha fondata sul codice berlinese Hamilton 90, mostrando che in esso il testo era stato scritto, corretto e illustrato di propria mano dal Boccaccio negli ultimi tempi della sua vita. Le edizioni precedenti avevano ignorato quel codice, e semmai avevano ereditato da altre fonti certe “piallature e levigature” linguistiche imputabili a un mito cinquecentesco, che aveva fatto del Decameron il “regolo di Policleto” della prosa italiana.
Inseriamo ora nella Biblioteca questo testo canonico che rappresenta l’ultima volontà dell’autore, rimpiangendo che i meandri del copyright non ci permettano d’inserire anche le vignette autografe.
Il testo incide anche sull’immagine tradizionale dell’autore, alle prese con ciò che è stato presentato come il “lato nero” dell’opera sua: la filosofia di vita – assennata, solare, e non pia; la satira del malcostume ecclesiastico; la satira della “comunione dei santi” – per esempio nella confessione di San Ciappelletto, nella predica di frate Cipolla, o nelle esibizioni di frate Alberto in veste di Agnolo Gabriello.
Scrivere il Decameron in Italia si poteva nel Trecento, ma non più ai tempi di Riforma e Controriforma. Allora l’autore avrebbe dovuto correre a rifugiarsi in un paese riformato, per non finire decapitato in piazza (come Ferrante Pallavicino) o pugnalato in un vicolo buio dallo “stylum Romanae Curiae” (come fra’ Paolo Sarpi).
Ormai non si poteva cancellare la gloria letteraria e linguistica di quello sciagurato libro (neppure riservato ai dotti, bensì pericolosamente votato alla diffusione popolare); ci si dovette accontentare di inserirlo nell’Index librorum prohibitorum, dove entrò fin dall’inizio e sempre rimase. Ormai non si poteva ammazzare l’autore; ma si potevano stigmatizzare i suoi “eccessi” e favoleggiare il suo “pentimento” in vecchiaia. A questo si trovarono a collaborare per leggerezza persino studiosi eccellenti e insospettabili (per esempio De Sanctis sul “pentimento”, o Auerbach sugli “eccessi”).
Il codice Hamilton getta sulla vicenda del Boccaccio tutt’altra luce. Narra Branca: «Per lui, invecchiato precocemente, tormentato successivamente dall’idropisia e da una dolorosissima forma di scabbia, la solitudine della casa di Certaldo […] è ormai popolata soltanto dagli estremi appassionati atti di fede […], cioè dalla trascrizione accurata e impegnata stilisticamente e figurativamente del suo Decameron (l’autografo ora alla Biblioteca di Berlino con gustose illustrazioni pure autografe)…»

D E C A M E R O N (Opera Integrale di Giovanni Boccaccio):

http://www.liberliber.it/biblioteca/b/boccaccio/decameron_branca/pdf/boccaccio_decameron_branca.pdf

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